Las Cruces era l'ultima vera tappa del nostro viaggio. Ora si tratta di rientrare a San Diego per fare tre giorni in relax prima di ripartire, e decidiamo di suddividere in tre parti i 1150 chilometri che separano le due città. La prima tappa di trasferimento è Tucson, Arizona. La località non è scelta a caso, perchè a Tucson si è trasferita la Fufi, un'amica nonchè chef e maestra di cucina di Monica, ed ha rilevato incentro città il Caffè Milano, un ristorante italiano che punta ad essere più italiano della media dei ristoranti tricolori presenti in America.
Il grosso problema (e mistero) è che gli Americani vengono qui in Italia, mangiano le prelibatezze della cucina italiane cucinate all'italiana e poi tornano a casa decantando i piatti assaggiati ma esigendone un'americanizzazione totale.
Esempio: l'americano che mangia una squisita carbonara a Roma, torna a Wadafuck, il suo paesello natio, racconta a tutti della buona carbonara mangiata in Italia e poi va al ristorante italiano e se non gliela servono con il brodino con la panna la schifa e non la mangia.
Cos'è, alla frontiera ti resettano il chip e non ti ricordi che nella carbonara mangiata a Roma non c'era ombra di brodino? Del resto se si chiama pastasciutta ci sarà un motivo, no? Se no si chiamerebbe pasta in brodo. O no?
Per non parlare dei vini. Alfredo, il marito della Fufi, sommelier esperto, dice che ha dovuto imparare a non ridere in faccia ai clienti che con la lasagna chiedono il moscato. Quando capita la risposta è "Scelta azzeccatissima", e giù di bestemmioni sottovoce.
L'incontro con la Fufi nel suo bellissimo ristorante è l'occasione di un bel "reality check" sugli Stati Uniti.
Noi italiani abbiamo spesso il sogno dell'America, ma ogni volta che mi reco in loco, oltre ad apprezzare tante cose e rimanere scettico su altre, come logico, mi trovo spesso a pensare che sì, probabilmente mi adatterei bene allo stile di vita, ma l'incognita è rappresentata dalla vita di tutti i giorni, dai problemi comuni, l'idraulico, il dottore, la scuola, insomma, tutte quelle cose che uno dà per scontate perchè non ci pensa.
Innanzitutto capiamo subito che un eventuale trasferimento negli USA necessità di essere pianificato e programmato per bene a partire dalla richiesta dei visti. Esistono una miriade di visti differenti., e a seconda di quello che richiedi la tua vita negli USA può essere semplice o estremamente complicata. Quindi punto primo: informarsi alla perfezione su cosa serve. Questo perchè se sbagli il tipo di visto, come è capitato a loro, ne porti le conseguenze per sempre. Una "piccolezza" su tutte? Alcuni visti hanno come condizione che tu non potrai mai, in nessun caso, richiedere la cosiddetta green card, per cui sarai sempre un ospite straniero, con tutte le conseguenze del caso, dalle più lievi come il dover lasciare gli USA per almeno un paio di giorni ogni due anni per poi rientrare e rinnovare il visto alle più pesanti come il divieto di accesso alle facilitazioni quali borse di studio, prestiti agevolati e addirittura tipi di corsi universitari.
Inoltre qui siamo abituati alla sanità gratuita o quasi. Non parliamo dei difetti e dei pregi dei due sistemi o della qualità del servizio. parliamo proprio della forma mentis per cui se ho, per esempio, l'appendicite, vado all'ospedale e mi operano (ripeto, tralasciamo tutti i discorsi relativi a tempi, qualità, posti letto e simili). In USA no. Se non hai un'assicurazione (e tanti non ce l'hanno), l'operazione può costarti qualche decina di migliaia di dollari, dove "qualche" arriva facilmente a 80, 90 ed anche di più per patologie più complesse.
Insomma, non è tutto rose e fiori e no, non è vero che "basta l'assicurazione sanitaria", perchè devi mettere in conto sia la franchigia che ogni assicurazione ha, sia il fatto che una buona assicurazione sanitaria per uno straniero può ostare anche più di 1000 dollari al mese.
Quando usciamo dal ristorante non abbiamo più tutte le certezze che avevamo prima di entrare su un eventuale trasferimento in USA. Bisogna, comunque, verificare anche come cambia lo scenario se ci si procura i visti adeguati, ma un bel richiamo alla realtà non fa mai male.
Lasciamo Tucson per Yuma, l'ultima città dell'Arizona prima di entrare in California, famosissima per i treni (che sia "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma" oppure "Quel treno per Yuma").
Un caldo micidiale, quasi pari a quello di Needles ci accoglie in questo agglomerato di case in mezzo al deserto. Breve giro nel circondario e poi in albergo a riposarci, senonchè, alle 4 del mattino, si mette a suonare l'allarme antincendio. E che palle...
Mezzi rincoglioniti dal sonno e dalla fastidiosissima sirena ci vestiamo e ci avviamo all'uscita di sicurezza. Dal terzo piano scendiamo nel pazzale del parcheggio antistante l'albergo e... non c'è nessuno. Ci vorranno cinque minuti buoni prima che inizino ad arrivare gli altri clienti dell'albergo (alcuni hanno addirittura fatto le valigie e se le sono portate dietro, esattamente come recitano tutti i protocolli di sicurezza...), ma soprattutto non si vede nessuno dell'albergo. I pompieri arrivano i nun quarto d'ora, e solo in quel momento si vede la portiera di notte che li accoglie e li fa entrare.
Nessun incendio. Si tratta di un blackout generalizzato che ha colpito mezza città, ma solo al nostro albergo è scattato l'allarme, probabilmente per un malfunzionamento dei generatori di emergenza.
Vabbè, niente di che, se non fosse che si dorme per il resto (poco) della notte senza aria condizionata (e faceva caldo pure di notte).
Via da Yuma, ci aspetta San Diego.
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