mercoledì 30 dicembre 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 6


Prima della fine dell’anno ce la faccio… manca solo più l’ultima tappa di questo travagliato diario di viaggio estivo, e in fondo sono passati poi solo cinque mesi :)
Dove eravamo rimasti? A Canterbury, ultima fermata notturna del nostro giro ma penultima località visitata.
Attirati dalla celeberrima cattedrale, abbiamo fatto tappa nella piccola cittadina del Kent prima di tornare verso Londra (o meglio Stansted) per poi tornare a casa.
Il centro abitato di Canterbury è mediamente esteso, si tratta pur sempre di una cittadina di una cinquantina di migliaia di abitanti, ma tutto si svolge nella via pedonale centrale nei pressi della cattedrale che si chiama High Street e si snoda per un chilometro circa tra le West Gates e l’ultimo tratto in cui cambia nome e diventa St.George’s Street. Questa via pedonale offre diversi negozietti particolari, oltre ai soliti delle catene immancabili pure qui (Pizza Hut, Zara, Marks & Spencer e via andare). Uno in particolare ha attirato la mia attenzione perché vendeva principalmente fumetti (del resto si chiama “Whatever Comics”) ma anche un gran numero di “ciarpame” legato alla musica ai tempi del vinile. Due vetrine decisamente interessanti (per me, ovviamente).
L’altro posto che mi sento di consigliarvi in High Street è il ristorante “The Bull”. Attirati dall’insegna (il Toro stilizzato che il Torino Calcio usò negli anni 80 (questo per intenderci) e da un amico in comune con il padrone, avremmo tanto voluto assaggiare un bel risotto alla barbera, ma un “problema tecnico” (il bagno delle signore si era intasato allagando tutto il locale) lo ha costretto alla chiusura proprio nel giorno in cui eravamo lì. Un vero peccato, perché a quanto sembra si mangiano tutta una serie di specialità piemontesi ed italiane ed il livello mi dicono essere molto buono.
Un po’ meno buono il livello del suggerimento del proprietario per un ristorante alternativo “non turistico”. Ci ha spediti in un bellissimo posto di fianco alla stazione, in un capannone riadattato dove c’è un piccolo mercatino alimentare dove al momento ti preparano le cibarie che scegli e compri direttamente dai banchi. La sera ovviamente questa opzione è da scartare, essendo i banchi del mercato chiusi, ma sempre all’interno c’è un delizioso ristorantino dove una cameriera scorbutica ti serve quattro piatti in croce, con porzioni microscopiche dal prezzo esorbitante. Il posto si chiama “The Good Sheds”, nel caso vi venisse proprio voglia di farvi pelare ed uscire affamati. Però è un bel posto, molto suggestivo.
La cattederale. Che dire: magnifica. La visita merita davvero. Un edificio imponente, una serie di vetrate spettacolari, un chiostro suggestivo ed un piano inferiore illuminato dalle candele e davvero inquietante. Un vero peccato la presenza di diversi ponteggi esterni per il restauro di alcune parti dell’edificio, ma anche così le 10,50 sterline richieste all’ingresso sono state davvero ben spese.
Essendo incastonata in mezzo alle abitazioni e gli stretti vicoli che la circondano, dal di fuori non si coglie la sua maestosità, riuscendo a scorgersi solamente alcuni pezzi dellì’edificio, ed in ogni caso l’9nterno va visitato perché vale davvero la pena e non si ha la sensazione di essere all’interno dell’ennesima chiesa gotica/barocca/romanica/moderna nelle quali ogni stile sembra fatto con lo stampino.
Dicevo che pur essendo l’ultima tappa notturna (se si eccettua quella fatta nei pressi dell’aeroporto per poter prendere il volo delle 6:50 del mattino successivo), abbiamo ancora fatto una tappa turistica, precisamente alle scogliere di Dover.
E precisamente la domanda è proprio questa… le scogliere? “Dover” sono le scogliere? Dal sito turistico “White cliffs of Dover” si ha una bellissima vista dall’alto del porto di Dover ed un minimo scorcio delle bianche scogliere. Beh, direte voi, è ovvio, ci sei sopra per cui non puoi vederle. Potrei anche essere d’accordo, ma in altre parti della terra d’Albione (Scozia ed Irlanda) i punti panoramici sono fatti in modo che tu “veda” il panorama annunciato, non che ti ci trovi sopra. Morale della favola: probabilmente, da quel poco che siamo riusciti a vedere, si tratta di un sito naturale bellissimo, ma se volete davvero vedere le scogliere in tutta la loro imponenza, o scendete direttamente in paese oppure andate in Francia e prendete il traghetto da Calais.
Comodo, vero?
Bene. Il viaggio è terminato. Ci manca solo più di tornare a Stansted, restituire la vettura ed andare al Ramada che c’è nell’area di servizio della superstrada che passa di fianco a Stansted per essere pronti il mattino dopo per saltare sul Ryanair che ci riporterà nella nostra Torino.

mercoledì 4 novembre 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 5

Dove eravamo rimasti? Tra una cosa e l’altra sono ancora in debito con i miei tre lettori (molti meno di quelli del Manzoni, ça va sans dire) del resoconto dell’ultima parte del viaggio in Inghilterra.
Lasciata Birmingham, ci dirigiamo verso un altro luogo mistico, uno di quei posti di cui senti sempre parlare e ti riprometti prima o poi di andare a vedere con i tuoi occhi: Stonehenge.
Dai racconti dei miei genitori, che visitarono il luogo non più di una decina di anni fa, le cose appaiono immediatamente cambiate. Innanzitutto auto, pullman e traffico vario viene fermato ad un paio di chilometri buoni dal sito, in un ampio spazio di accoglienza formato da un grosso parcheggio ed un Visitors Center nuovo di zecca. Una volta pagato l’ingresso (sempre sia lodata la prenotazione via internet che ti fa risparmiare qualche sterlina e soprattutto ti evita la ressa e la coda allo sportello), si può iniziare la visita con una passeggiata tra le quattro o cinque casette ricostruite che rappresentano quelle che si pensa essere le unità abitative della popolazione che abitava la piana di Salisbury all’epoca della costruzione del cerchio di pietre. Leggendo i tabelloni informativi ho così scoperto che per decenni ho pensato che Stonehenge avesse a che fare con i Celti ed i Druidi, ma in realtà non è così. O meglio, magari i Druidi hanno utilizzato la costruzione per i loro riti, ma essendo la società celtica e la cultura druidica risalenti intorno al 300 a.c., ciò significa che si sono ritrovati il cerchio di pietre già bell’e pronto, ed anzi rappresentava le vestigia di un passato alquanto remoto, risalendo la sua costruzione a circa il 2000 a.c.
Molto interessante tutta la parte relativa alle varie ipotesi sulle modalità di costruzione del monumento, dal taglio delle pietre in vari siti nei dintorni (ma anche in Galles, a più di 150 miglia di distanza), al loro trasporto tramite rulli formati da tronchi d’albero, alla loro messa in posa grazie all’utilizzo di complessi sistemi di leve e supporti.
Fatto il pieno di conoscenza, ci si può dirigere verso il cerchio di pietra scegliendo tra due alternative: la navetta o la camminata. Per entrambe le opzioni il sito ufficiale di Stonehenge fa un po’ di terrorismo psicologico. Per la camminata parla di almeno venti minuti a piedi, mentre per quanto riguarda le navette ne offre una descrizione totalmente fuori dalla realtà. Si, le navette sono piccole (ci staranno una ventina abbondante di persone, non di più), ma la frequenza è piuttosto alta, per cui non si formano mai grosse code in attesa e, soprattutto, non ci sono tutti quei problemi che il sito web sembra descrivere (“prenotate un orario specifico per la visita”, dicono, “così avrete la certezza di avere la navetta garantita”, come se ci fosse il pericolo di andare a piedi se si arriva fuori dal proprio orario).
Probabilmente questo terrorismo viene fatto appositamente per far sì che il ricambio al monumento sia continuo, in maniera da evitare grossi affollamenti.
Purtroppo (o per fortuna) da qualche anno non è più consentito avvicinarsi e girare liberamente tra le pietre, ma è necessario seguire un percorso circolare che gira intorno al monumento. Da una parte resta un po’ l’amaro in bocca per non poter visitare da vicino le pietre, ma dall’altra, conoscendo l’animale turista medio, forse è meglio così, per la buona conservazione del sito.
Un’altra scoperta fatta in loco è che l’attuale posizione delle pietre non è quella originale, ma il risultato di un restauro durato circa 150 anni (!), durante il quale le pietre sono state spostate, riposizionate e fissate al terreno con del calcestruzzo.
A sapere tutte queste cose, forse forse sarebbe stato meglio non andarci, e restare con le leggende e le convinzioni (errate, ma più affascinanti) accumulate in questi anni.
Il luogo è comunque affascinante, e chiunque sia stato a portare lì quelle pietre, è sempre sorprendente pensare all’immane lavoro fatto in epoche remote per erigere questo monumento. Un po’ la stessa sensazione che si prova di fronte alle piramidi, insomma. Una civiltà da noi lontanissima nel tempo ma capace di imprese che risulterebbero impegnative ancor oggi.
Tornati dalla visita a Stonehenge, abbiamo ancora tempo per fare un rapido giro nella cittadina che ci ospiterà per la notte: Salisbury. La pioggia (l’unica di tutta la vacanza) ci obbliga a ridurre la visita al minimo, ma abbiamo comunque il tempo di ammirare la splendida ed imponente cattedrale.

lunedì 14 settembre 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 4

Il trasferimento da Liverpool verso il sud dell'Inghilterra prevedeva una tappa intermedia a Birmingham. Non che a Birmingham ci fosse chissà cosa da vedere (anzo, non la visiteremo nemmeno), ma la fermata era strategica per un paio di "deviazioni" interessanti.
La prima deviazione riguardava il pellegrinaggio di cui parlavo nel post precedente.
Una ventina di chilometri a sud di Birmingham, lungo una stretta strada di campagna, si trova il paesino chiamato Tanworth-in-Arden, da non confondersi con il più grande Tamworth (e basta) situato invece a nord di Birmingham.
Una fila di classici cottage inglesi, con giardino e prato perfettamente rasato, fiancheggia la strada principale che finisce in una stretta piazzetta da cui si diramano due strade. Le due strade circondano la chiesa di St.Mary, anch'essa una classica chiesa britannica, in pietra grigia, con un bel campanile imponente ed un cimitero annesso.
All'interno del cimitero si trova, tra gli altri, un imponente albero che, si dice, ha ispirato la canzone "Fruit Tree" del cantautore inglese Nick Drake. Nick, pur essendo nato a Yangon, dove la famiglia risiedeva a causa del lavoro del padre, ha passato la maggior parte della sua vita a Tanworth-in-Arden, dove è morto il 25 novembre 1974 a soli 26 anni.
Alla base dell'albero c'è la tomba di famiglia dei Drake. Prima Nick, messo a riposare sotto il suo "fruit tree", poi il padre Rodney e la madre Molly, morti negli anni successivi e, quando sarà il momento, a riunire la famiglia intera ci sarà anche la sorella Gabrielle, più nota per l'interpretazione del tenente Ellis dal caschetto viola nella serie televisiva "U.F.O.".
Non vi starò ad annoiare raccontandovi dell'importanza di Nick Drake e della sua musica quando ancora avevo i capelli e la vita sentimentale non solo non mi sorrideva ma mi mandava messaggi crudeli. Basti pensare che il poco tempo passato a visitare la chiesa, il cimitero e rendere omaggio a Nick Drake sono stati un gran bel toccasana.
Da Tanworth-in-Arden ci dirigiamo verso la seconda meta della giornata: Stratford-upon-Avon, la città di Shakespeare.
Complice anche una sorta di fiera floreale, a Stratford c'è il mondo intero, ma tutto sommato si riesce a visitare abbastanza agevolmente.
A differenza di Liverpool, dove la presenza dei Beatles è piuttosto vaga ed eterea, a Stratford-upon-Avon da qualsiasi parte ti volti c'è un riferimento a Shakespeare. La casa dove è nato, quella dove è vissuto, quella dove ha scritto la tal opera, quella dove è morto, quella dove il 23 maggio del 1608 ha mangiato un mezzo pollo con le patate e si è sporcato il colletto bianco... Insomma, il personaggio è sfruttato turisticamente più che a dovere.
La piccola via pedonale con le casette medievali (la maggior parte rifatte e restaurate, ovviamente) è invasa di turisti, la maggior parte dei quali italiani, ma riusciamo a vedere quel che vogliamo vedere senza grossi problemi. Girando per il paese, poi, ho l'opportunità di mandare cortesemente a quel paese l'operatore ecologico che ha pensato bene di fermare il suo camioncino pieno di attrezzi proprio di fronte a me mentre stavo per scattare una foto che non sarei riuscito a scattare da nessun'altra angolazione se non quella.
Rientro a Birmingham in serata dove ci attende un albergo sperduto nel nulla dello svincolo autostradale, che ci ospiterà per la notte prima del trasferimento verso Stonehenge del giorno successivo.

giovedì 27 agosto 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 3

Lasciata Nottingham con l'irrisolto mistero del castello, giungiamo a Sheffield nel tardo pomeriggio. La dislocazione piuttosto periferica dell'albergo non permette un comodo giro serale per la città, ed anche per il fatto che siamo un po' stanchi, rimandiamo la visita al mattino seguente, prima di intraprendere il trasferimento verso Liverpool.
Purtroppo, per i motivi già spiegati nella prima parte di questo resoconto, la visita a Sheffield si trasforma in una mattinata spesa tra farmacia e NHS, l'ambulatorio dove ci si deve recare per farsi visitare ed ottenere una prescrizione medica, e tra una cosa e l'altra tutto il tempo che avrebbe dovuto essere dedicato ad una rapida escursione in città se ne va in "turismo sanitario", per cui ci incamminiamo in direzione Merseyside in leggero anticipo rispetto al previsto.
Negli anni ho sempre sentito parlare di Liverpool come di una città depressa, operaia, pesantemente colpita dalla crisi degli anni '80 dalla quale non si è mai più risollevata. La mia curiosità nei confronti della città dei Beatles e di Anfield Road, però, era comunque alta, anche se i racconti di tutti quelli che ci erano stati in passato non erano proprio incoraggianti.
Capirete quindi il mio stupore quando mi sono ritrovato in una città moderna, tutto sommato abbastanza vitale ed al centro di un processo di rinnovamento importante.
Gli abitanti di Liverpool sono spesso chiamati "Scousers", termine derivato da "lobscouse", un particolare tipo di stufato cucinato con le gallette tipicamente utilizzata sulle navi per le sue qualità di lunga conservazione. Ho sempre pensato che Scousers fosse un dispregiativo, ma ho invece imparato che gli abitanti stessi di Liverpool si definiscono più spesso Scousers che non Liverpudlians. Se poi fai parte della "metà blu" della città, quella cioè che tifa Everton, il termine Liverpudlian è quasi bandito, per ovvi motivi.
Il centro nevralgico di Liverpool si concentra tutto nella zona dei vecchi docks, il cosiddetto Liverpool Waterfront, dove si trova una mistura di stili architettonici che inizialmente sembra un pugno in un occhio, ma che ad un secondo sguardo risulta gradevole. Le forme ardite del Liverpool Museum e del Liverpool Convention Center o il parallelepipedo nero e spigoloso del'Open Eye Gallery sono in netto contrasto risptto all'architettura vittoriana o ai muri di mattoni rossi dei docks che li circondano, ma tutto sommato l'armonia del luogo non ne risente.
Lo so, in fatto di gusti architettonici non potete certo fidarvi di uno dei tre torinesi a cui piace la Torre Littoria di Piazza Castello, ma dovrete farvene una ragione: questo c'è e questo vi tocca.
Dalla parte del Mersey si susseguono il Princes Dock, il Pier Head, l'Albert Dock ed il King's Dock, vecchi edifici portuali, probabilmente ai tempi malfamati e maleodoranti, sapientemente trasformati in centro di attrazione turistica con tutto l'occorrente, dai negozietti ai ristoranti, dai musei alle gallerie d'arte alle attrazioni come una ruota panoramica in stile (molto ridotto) London Eye.
Molto particolare la minuscola stazione dei Ferry (across the Mersey, cit. Gerry and the Pacemakers), che per diversi decenni ha rappresentato il punto di approdo a Liverpool per migliaia di persone.
Dalla parte opposta dello stradone che costeggia i Docks il quartiere è stato completamente rifatto e riempito di centri commerciali e negozi tipici dei "centro città europei" (Zara, Starbucks, Footlocker, ecc. ecc.). La zona pedonale è molto affollata ma decisamente anonima. Se non fosse per gli store di Liverpool ed Everton praticamente fianco a fianco, ci si potrebbe trovare in una qualsiasi città moderna.
All'interno della zona pedonale c'e il Cavern District, dove ha sede l'omonimo locale che ha praticamente dato i natali ai Beatles, anche se i beatlesiani di ferro riconoscono la primogenitura ai locali di Amburgo  come l'Indra ed il Kaiserkeller dove Lennon e soci (senza Ringo Starr) suonarono dal 1960 al 1962 prima di diventare famosi. Detto che il Cavern attuale non è quello originale, sacrificato sull'altare del business del condominio costruitoci sopra, ma una copia costruita 30 metri più a destra della sua locazione iniziale, davvero degno di nota è il muro di mattoni di fronte all'entrata, su ogni mattone del quale è inciso il nome del gruppo o del cantante che si è esibito al Cavern almeno una volta.
E qui veniamo all'argomento Beatles. Io immaginavo che, con tutti i beatleasiani sparsi nel pianeta, Liverpool presentasse i Fab Four ad ogni angolo, ne avesse fatto il simbolo della città e uno non potesse camminare per strada senza imbattersi in qualcosa che li ricordasse. Invece, a parte la Beatles Experience all'Albert Dock e le statue dei quattro sul palazzo di North John Street che fa angolo con Mathew Street, i Beatles sono praticamente assenti dalla città. Persino nei negozi di souvenir ci sono relativamente poche cose che li riguardano. Un mistero pari a quello del castello di Nottingham.
Come spesso facciamo nelle grandi città, abbiamo preso il locale "City Sightseeing" o suo equivalente mussulmano per avere almeno uno sguardo d'insieme, non potendo per ovvi motivi visitare tutto. Ed anche questo tour non ha una, dicasi una, fermata dedicata ai Beatles. Nella mia ignorante ingenuità mi sarei aspettato un Beatles Tour nei luoghi resi famosi dalle loro canzoni. Invece niente Strawberry Field dove "nothing is real and nothing to get hung about"e niente Penny Lane con il suo "barber showing photographs of every head he had the pleasure to have known", e niente Yellow Submarine, che starebbe bene da qualche parte ai docks.
Un'altra mezza delusione è stata la visita ad Anfield Road, complice i lavori di espansione di una delle tribune che ne ha limitato l'accesso. Tra le altre cose, ad esempio, non ho potuto vedere la famosa cancellata nera con la scritta dorata "You'll never walk alone", ed anche il tour dello stadio (a pagamento, non gratis come a Nottingham...) era ridotto a causa dei lavori (ma a prezzo pieno, anzi: pienissimo) per cui non ho ritenuto opportuno farlo.
La sistemazione alberghiera era ottima, un Premier Inn situato a Birkenhead, dall'altra parte del Mersey. Da un lato era comodissimo, perchè la stazione della metropolitana era a due passi ed in sole quattro fermate ti ritrovavi in centro città. Per contro, per usare la macchina per raggiungere Liverpool, dovevi sottostare al pagamento del tunnel di attraversamento del Mersey (indispensabile, perchè l'unico altro modo di arrivare dall'altra parte (1 Km in linea d'aria) è di circumnavigare l'estuario del Mersey percorrendo 64 chilometri...) e poi alle carissime tariffe dei parcheggi del waterfront. Inutile dire che la macchina ha svernato nel parcheggio dell'hotel per tre giorni.
Conclusa la visita a Liverpool, è ora di dirigersi verso un'altra meta del mio personalissimo pellegrinaggio: Tanworth-in-Arden.
Curiosi di sapere cosa c'è in questo minuscolo paesino sperduto del Warwickshire? Lo saprete la prossima volta.

venerdì 7 agosto 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 2


Saliamo sulla nostra splendida Mazda 3 nera ed iniziamo il tour inglese. Nel frattempo, se volete accompagnare le poche note che scriverò con delle immagini, QUI potrete trovare un album fotografico del viaggio.
La prima tappa del nostro itinerario è Cambridge, e la sua celeberrima università. La cittadina appare subito bella frizzante, con un sacco di giovani per strada (per lo più turisti, un sacco di italiani e gli immancabili giapponesi intruppati con guida munita di ombrellino e macchina fotografica regolamentare al collo) ed un bel parco piuttosto frequentato.
Dei 31 College che compongono l’università, si distingue tra tutti l’imponente King’s College con annessa Cappella. Una costruzione che mette soggezione solo a guardarla. Frequentare l’università lì deve avere un fascino particolare, al di là della fama accademica.
Dribblati i venditori di “gite in barca sul fiume” che sembrano più numerosi dei testimoni di Geova la domenica mattina, facciamo un rapido giro nel centro storico di Cambridge constatando che, tutto sommato, oltre l’università non è che ci sia poi molto altro da vedere.
Dopo lo stop notturno ad Hungtindon, ci dirigiamo verso Nottingham per poi puntare verso Sheffield per la serata. Arrivando nella città di Robin Hood scorgiamo immediatamente quella che sarà la meta pomeridiana, il City Ground, ma la mattinata è dedicata ad una breve visita della città e del suo centro storico.
La prima cosa di cui ci rendiamo conto è che Nottingham è una città dai due volti (vi risparmio lo stereotipo delle “mille contraddizioni”). Parcheggiamo dalle parti del lungo fiume, in una zona piuttosto squallida e spettrale, con grosse costruzioni in mattoni che sembrano capannoni semi abbandonati, e ci avviamo verso il vicino centro commerciale alla ricerca di una farmacia per cercare di tamponare la tonsillite ricevuta come gentile omaggio da Ryanair. Il centro commerciale ha due ingressi, ed uscendo dalla parte opposta da quella da cui siamo entrati, ci immettiamo in quella che sembra essere un’altra città. Zona pedonale, negozi, un sacco di gente in movimento, ed improvvisamente l’apparente spettralità del luogo scompare.
Un giro nel quartiere centrale ci rivela invece una città molto vitale, piuttosto lontana dalle disarmanti descrizioni di chi me ne aveva parlato (male) in passato. Ci sono diversi cantieri e tutto ha un aspetto piuttosto moderno e recente, per cui può anche darsi che Nottingham sia nel bel mezzo di una trasformazione che, a vedere i primi risultati, sembra avvenire  piuttosto bene.
L’unica pecca è la segnaletica. La colpa è soprattutto mia che non mi sono preparato prima in maniera adeguata, pensando che un’attrazione turistica come il Castello di Nottingham sarebbe stato facile da raggiungere. Invece, ahimè, non è stato proprio così. Dopo aver consultato un paio di cartine, aver ricevuto le gentili indicazioni di una signora che ci ha spiegato la strada dicendo “è là in fondo” (che mi ha fatto ricordare i suggerimenti su come interpretare le indicazioni stradali degli irlandesi), aver fatto un po’ di strada avanti ed indietro, abbiamo alla fine rinunciato, preferendo andare a pranzo piuttosto che continuare a girovagare alla cieca alla ricerca di uno sputo di cartello che ci desse qualche indicazione. In questo frangente si è palesato un aspetto negativo del cambio di gestore telefonico da 3 a Fastweb, che non ha la comodissima opzione “All’estero come a casa” per la connessione dati. Non poter consultare Google Maps ha dato la botta decisiva alla decisione di “sospendere le ricerche” del Castello.
Ancora oggi, comunque, non mi capacito di come, guardando la cartina a posteriori, fossimo tanto vicini e non se ne vedesse l’ombra.
Saziato l’appetito in un TGIF praticamente deserto, ci siamo diretto oltre il fiume Trent, per il primo dei tanti pellegrinaggi previsti da questo viaggio: il City Ground.
La mia passione per il Nottingham Forest risale al 1978 quando, leggendo il Guerin Sportivo, rimasi affascinato dalla fantastica cavalcata di una squadra neopromossa in First Division (non si chiamava ancora Premier) che alla fine vinse il campionato con diversi punti di vantaggio sul Liverpool e perdendo tre sole  partite, iniziando un’epopea che portò anche due Coppe Campioni. Ora il Forest naviga a metà classifica della Championship (la nostra serie B) dopo aver passato diverse stagioni nella League One (Serie C), ma la passione per i Reds è rimasta intatta. Calcolando, poi, che ovunque vada io voglio vedere lo stadio della città che visito, andare al City Ground era praticamente un obbligo (e non ringrazierò mai abbastanza Monica per avere pianificato questa deviazione sul programma originario che non includeva Nottingham…).
Non è come andare allo stadio del Barcellona o del Liverpool, o del Chelsea. Non ci sono tour guidati. C’è il negozio ufficiale della squadra, dove fa bella mostra una replica di una delle due Coppe Campioni vinte, e dove si può trovare qualsiasi cosa marcata Forest, e c’è lo stadio. Aperto, non blindato come molti altri. Una rapida visita alla segreteria mi dà il permesso di visitare il campo e le tribune e finalmente sono lì, dove i Reds giocano le loro partite. Seduto su un seggiolino, affacciato al prato dove il giardiniere sta effettuando il taglio dell’erba. Il classico stadio inglese dei miei sogni, a mezzo metro dai giocatori, senza alcuna barriera. Sembra di sentire il Trent End cantare, e nonostante sia pieno giorno, ci sia il sole e ci siano 24 gradi, mi immagino gli spalti gremiti in una fredda serata di novembre, con la nebbia che sale dal fiume dietro le tribune, con i lampioni accesi e le maglie rosse che corrono dappertutto spinti dalla folla che non smette un attimo di incitarli.
Ad un certo punto mi risveglio… è ora di andare.
Lasciamo la zona degli stadi (dall’altra parte del fiume si vede lo stadio del Notts County, e di fianco a quello del Forest c’è lo stadio del Cricket), e ci dirigiamo verso Sheffield, dove arriviamo nel tardo pomeriggio.
Ci lasciamo alle spalle Nottingham, con una domanda: ma Robin Hood?!? Nemmeno una traccia in tutta la città, nemmeno nei negozi di souvenir. Ma è una cosa di cui avremo modo di parlare quando arriveremo a Liverpool, nella prossima puntata.

lunedì 3 agosto 2015

Inghilterra 2015: appunti di viaggio / 1

Dopo Scozia ed Irlanda, per le vacanze di quest’anno abbiamo deciso di puntare ancora verso la Gran Bretagna, focalizzando la nostra attenzione sull’Inghilterra centrale e meridionale.
Evitata Londra, già vista e rivista e meta del pellegrinaggio annuale alla mecca di Wembley per la partita NFL al quale quest’anno parteciperà per la prima volta anche l’ex piccoletto, abbiamo messo giù un programma di viaggio che prevedeva di toccare alcune mete interessanti: Cambridge, Nottingham, Sheffield, Liverpool, Birmingham, Tanworth-in-Arden, Salisbury, Canterbury e Dover.
Memore delle esperienze precedenti, questa volta ho optato per il noleggio di una macchina con cambio automatico, e devo dire che, nonostante il prezzo superiore, la scelta si è rivelata più che azzeccata. L’intenso traffico trovato in numerose volte in autostrada è stato sopportato più facilmente senza dover pensare al cambio con la sinistra, vera croce dei miei due precedenti tentativi di guida dalla parte sbagliata.
Dopo aver cercato di fare desistere il solerte impiegato dell’agenzia di noleggio dal convincermi che avrei avuto bisogno di una macchina più grande e diesel (una scelta davvero intelligente, in un paese dove il Diesel costa più della benzina…) per “sole” settanta sterline in più al giorno ridotte fino a 35 dopo una serie estenuante di “No, grazie”, finalmente mi viene consegnata la splendida Mazda 3 che ci farà compagnia per questa settimana. A differenza della soporifera Toyota dello scorso anno in Irlanda, questa Mazda si rivela un’ottima vettura sotto tutti i punti di vista, e le quasi mille miglia che percorreremo voleranno via senza problemi (traffico a parte, ovviamente, ma quello non è certo colpa della vettura).
Prima di addentrarmi nel racconto vero e proprio del viaggio, mi permetto di fare due considerazioni di fondo.
La prima riguarda il sistema sanitario britannico. Grazie alla simpatica collaborazione di Ryanair, che ha tenuto la temperatura dell’aereo durante il volo di andata a livello “Ibernazione rapida”, Monica si è ritrovata con una bella tonsillite acuta al primo giorno di vacanza. Potrete immaginare la nostra gioia (soprattutto la sua…).
In farmacia le hanno dato del paracetamolo ed un misterioso farmaco che avrebbe dovuto, nelle intenzioni della farmacista, anestetizzare la parte dolente ma che, in realtà, non ha prodotto alcun effetto. Alla richiesta di un antibiotico, la risposta è ovviamente stata che per quel tipo di farmaci era necessaria una prescrizione medica.
Bene… siamo nel 2015, Europa Unita, tecnologia, cazzi e mazzi. E infatti sono cazzi…
Fatta inviare dal medico tramite e-mail una ricetta per un antibiotico, l’inflessibile farmacista non ha fatto una piega (per forza… è inflessibile!!!) ed ha detto che non poteva accettarla in quanto non originale. A nulla è valso fargli vedere sul telefono la mail inviata la mattina stessa. Si è reso quindi necessario fare la conoscenza con il sistema sanitario inglese, il che ha significato andare a cercare un NHS (una sorta di ambulatorio pubblico), farsi visitare da un medico che ha accertato la tonsillite e prescritto l’agognato antibiotico. Con la ricetta originale, siamo tornati in farmacia dove finalmente ci sono stati consegnati i medicinali, non senza mille raccomandazioni sulla posologia perché “sa… è un antibiotico”. E sti cazzi, mi veniva da dire… lo tenete in cassaforte manco fosse oro!!!
Nonostante tutto, però, il tutto è stato piuttosto efficiente e, nel limite del possibile, rapido. Gratuita la visita, ma le medicine ce le siamo dovute pagare. Inutile dire che della “Tessera Sanitaria Europea” non hanno nemmeno voluto sentire parlare. Come sempre i britannici sono in Europa, ma meno degli altri.
La seconda considerazione riguarda invece il viaggio in auto vero e proprio. Non mi sto a soffermare sulla cortesia generalizzata del guidatore britannico che ti fa pensare di vivere in un mondo di buzzurri, in Italia. Addirittura in autostrada ho messo la freccia per sorpassare, e sulla corsia di sorpasso c’era una vettura che sopraggiungeva, la quale ha rallentato, mi ha fatto i fari per permettermi di effettuare il sorpasso e, quando sono rientrato, mi ha tranquillamente superato riprendendo la sua velocità originaria. Uguale uguale alle autostrade italiche.
La cosa che mi ha maggiormente colpito in questo viaggio è il grandissimo numero di telecamere ed autovelox installati sulle strade britanniche. In autostrada, addirittura, ci sono interi tratti a velocità variabile dove il limite di velocità cambia a seconda delle condizioni di traffico ed è chiaramente indicato su dei tabelloni luminosi posti all’incirca ogni uno o due miglia e dotati di autovelox per controllare che gli automobilisti non superino la velocità indicata.
Mi immagino una cosa simile nel nostro paese. Panico totale, isteria generale, accuse di “Grandefratellismo”, attentato alla libertà di andare ai mille all’ora, accuse di “fare cassa”. Un sistema del genere durerebbe mano di una settimana, abbattuto da una selva di sentenze di tribunali locali, ricorsi delle associazioni di qualsiasi tipo ed infine dalle solite e scontate interrogazioni parlamentari.
Eppure lì funziona, ed anche bene. Sono proprio strani questi inglesi…
Arrivederci al prossimo post, con l’inizio del viaggio vero e propri

venerdì 3 aprile 2015

Cosa ho imparato questa settimana

Nei giorni scorsi ho seguito un corso in tre giorni su un argomento nuovo e molto in voga in questo momento nel mio ambito lavorativo: Big Data.
Sono stati tre giorni molto intensi ma decisamente interessanti, durante i quali ho scoperto un po' di cose nuove, ma soprattutto sono stato inondato dall'ormai inevitabile sequela di parole inglesi italianizzate di cui il gergo informatico è oramai pieno.
Ecco, allora, che ho imparato a:
  • Joinare dati diversi dopo averli parsati.
  • Fittare in RAM
  • Tokenizzare un testo e stemmare le parole.
Ho inoltre scoperto che:
  • Le montagne si misurano con l'elevazione (l'altitudine non la usa più nessuno)
  • "I Big Data sono come il sesso tra adolescenti: tutti ne parlano ma nessuno l'ha mai fatto sul serio"
  • Se uso un termostato intelligente risparmio 130 vagoni di carbone (anche se a casa ho il riscaldamento a metano)
  • La maggior parte dei software per gestire i big data hanno nomi di animali (l'elefante è il più gettonato in tre versioni differenti, di cui una orrenda mutazione con testa di elefante e corpo di ape), uno di questi si chiama Pig e la sua shell si chiama Grunt (ovviamente), e la suite che si raccoglie si chiama, altrettanto ovviamente, Zookeeper.
Ma la cosa più importante è stata constatare che, date le motivazioni per cui mi hanno fatto fare il corso e l'effettiva applicazione di questa tecnologia, è sempre molto attuale questa famosissima pubblicità (che, curiosamente, fa riferimento ad un altro animale, per cui calza... a pennello):


venerdì 20 marzo 2015

Grazie Ragazzi

Volevo scrivere queste righe già dopo l’impresa di Bilbao, ma ho atteso fino al termine di questa fantastica cavalcata europea, perché avevo la netta sensazione che non sarebbe finita molto presto. Mi sbagliavo, ma di poco. Il Toro che ho visto ieri sera poteva tranquillamente qualificarsi con un pizzico di fortuna in più ed un pizzico di malizia ed esperienza in Russia, la stessa che hanno mostrato i russi ieri sera, financo fastidiosi con i loro mille espedienti per perdere tempo.
Chi mi conosce avrebbe dovuto già accorgersi di un grande cambiamento. Ho scritto Toro, con la T maiuscola, e non Cairese, come spesso ho chiamato la squadra che indossava la maglia granata ogni domenica in questi dieci anni di presidenza di bracciamozze a.k.a. Urbano Cairo.
Ho scritto Toro perché ho finalmente rivisto la squadra di cui sono innamorato follemente da sempre. Una squadra che lotta, che butta il cuore oltre l’ostacolo, che porta a casa imprese epiche come quella di Bilbao senza sapere nemmeno bene come ci è riuscita, che sopperisce alle (molte) carenze tecniche con la grinta ed il cuore. Il tutto nonostante una società assente, un presidente che li considera solo una possibile plusvalenza ed un allenatore che, pur con qualche merito, non perde occasione per dichiarare come il tale o il talaltro sia pronto per una grande squadra, un palcoscenico più importante, il “calcio che conta”.
Sul presidente non ho parole da spendere, solo parolacce. Sull’allenatore, invece, qualche parola la spendo volentieri. Non è un mistero che non mi piaccia per niente. Non mi piace il suo non gioco fatto di verticalizzazioni all’indietro e di giro palla insulso a scimmiottare il tiki-taka del Barcellona (non è un caso che a Bilbao e ieri sera con lo Zenit si sia visto il Toro più lontano che si possa immaginare da quello che Ventura ci ha abituati a vedere in questi anni), non mi piace il suo ricordare costantemente che veniamo dalla serie B e da Cittadella, come se 100 anni di storia non fossero mai esistiti, e non mi piace la sua mania di prendersi i meriti delle vittorie ma mai i demeriti delle sconfitte, che sono sempre colpa dell’ambiente, dei tifosi, dell’errore di Benassi, dell’errore di Jansson. E’ però riuscito a plasmare un buon gruppo, e soprattutto a domare giocatori che ovunque siano stati (prima e dopo) hanno fallito (Cerci, anyone?). I risultati sono dalla sua, e su questo ci sono pochi dubbi. Però io ero orgoglioso di essere del Toro anche quando perdevamo a Castel di Sangro (un episodio a caso nei cent’anni di storia mai esistiti secondo Ventura) o quando pareggiavamo a Cittadella, perché i giocatori, gli allenatori ed i presidenti vengono e vanno, ma noi siamo sempre qua “a guardia di una fede”. Quello di cui non sono orgoglioso, da dieci anni a questa parte, è di avere un presidente che avrebbe la possibilità di fare grandi cose, ma preferisce vivacchiare alla giornata, sperando di azzeccare l’annata, nascondendosi dietro al paravento del bilancio sano e dei conti a posto (per forza… se non spendi mai è impossibile fare debiti).
L’avventura europea è finita, e chissà quando ci capiterà di nuovo di viverla. Tanti dei “cuori granata” che ieri sera riempivano il Comunale, se ne torneranno nell’ombra, pronti a saltar fuori all’occorrenza alla prossima vittoria, ma del resto la gobbizzazione di gran parte della nostra tifoseria è un processo evolutivo inarrestabile, soprattutto con personaggi come i due summenzionati in giro.
Io continuerò a portare sempre con orgoglio qualcosa del Toro indosso, come accade oramai da almeno quarant’anni a questa parte, sperando di non dover rivedere in campo la Cairese da qui a fine campionato.
Grazie ragazzi, grazie Capitan Glik. Ci avete fatto sognare.