Aspettavo per oggi la consegna di un pacco contenente un acquisto effettuato presso un noto rivenditore on line. Oggi era il giorno ideale: approfittando del giorno di chiusura delle scuole (non coincidente, purtroppo, con la chiusura degli uffici dove lavoriamo Monica ed io), il figliolo poteva essere a casa a ricevere la spedizione senza problemi.
Ore 13, suona il cellulare. Numero sconosciuto.
"Pronto?"
"Sono il corriere ***, sono qui sotto casa sua per consegnarle il pacco".
"Si, io sono fuori casa, ma dovrebbe esserci mio figlio": (E penso, non avrà sentito il campanello?)
"Ah, e come faccio?"
"..." (Ma mi prende per il culo?) "Dovrebbe suonare il campanello" (sapendo che è un campanello di nuova generazione con la lista da scorrere, immagino abbia qualche problemino e mi accingo a spiegargli come fare) "Deve scorrere la lista con..."
"Ma il campanello dove sta, a destra o a sinistra?"
"..." (Ma mi prende per il culo?) "Di fianco al portone c'è una colonna con il citofono".
"Ah, si, c'è scritto selezionare".
"Si, appunto, deve scorrere la lista con i due pulsanti con le frecce e quando vede il mio cognome, premere il pulsante rosso".
"Ah. E come si fa?"
"..." (Mi prende decisamente per il culo) "Schiacci le freccette... anzi, guardi, facciamo una cosa. Telefono a mio figlio che scenda".
"Ecco, è meglio".
Corrieri che dovrebbero cambiare mestiere.
Il masso su per la montagna dobbiamo spingerlo comunque. Facciamolo almeno col sorriso sulle labbra.
lunedì 31 ottobre 2016
domenica 23 ottobre 2016
Gli italiani e la coda
L'italiano medio odia la coda. Si lamenta in continuazione, cerca di evitarla in tutti i modi, passa davanti a chiunque, salta le file, crea quelle classiche code a piramide dove il nuovo arrivato non si mette dietro all'ultimo, ma gli si va a piazzare di fianco, quando va bene, aumentando via via la larghezza della coda (mai la lunghezza) , generando le classiche litigate su chi deve passare prima tra le dieci persone una di fianco all'altra.
Nonostante questa idiosincrasia per la coda, però, l'italiano medio ha una capacità innata di creare una coda inutile dal nulla.
Arrivo in aeroporto con il mio solito congruo anticipo, e mi siedo di fronte al gabbiotto ancora vuoto che regola l'accesso ai gate dei voli per l'Inghilterra ed extra UE, in quanto è necessario il controllo dei documenti.
Non c'è ancora nessuno, se non un altro paio di persone sedute come me in paziente attesa dell'arrivo dei due poliziotti che apriranno gabbiotto e passaggio.
Leggo cinque minuti, non di più, e quando rialzo la testa, di fronte al gabbiotto ancora vuoto ci sono una ventina di persone in coda.
Manca più di un'ora all'imbarco, e questo stanno già in piedi in coda. Per cosa, poi?
Sembrano tante sentinelle in piedi.
Dopo una ventina di minuti la fila è già imponente, perché ogni nuovo arrivato si mette in coda. Il gabbiotto è sempre chiuso.
Quando apre, si avventano come se distribuissero pane gratis, senza rispettare la linea rossa della privacy e tutti, indistintamente, nella fila di sinistra, dove fa bella mostra il cartello “Cittadini UE”.
L'altra fila, il cui cartello recita “Tutti i passaporti” è vuota.
Mi alzo lentamente, mi guardo intorno, chiedo permesso e taglio la fila per andare allo sportello vuoto.
Panico.
La fila vacilla, tentenna, non si sbilancia. Poi dal fondo un tizio si muove dalla fila di sinistra e supera tutti per andare anche lui allo sportello vuoto.
Via, libera tutti. Gente che corre con borse, borsoni e trolley per andare allo sportello vuoto, travolgendo chiunque gli si pari davanti. Altri che ne approfittano e passano davanti nella fila di sinistra. La solita scena da mandria di bufali.
Intanto, oltre il controllo passaporti si ripete la medesima scena di prima.
Il gate è chiuso, le hostess non ci sono ancora, ma la gente è già tutta ammassata in fila, come se ci fosse un premio per chi si imbarca prima degli altri.
Da quando anche Ryanair assegna i posti numerati non c'è più bisogno di entrare per primi per trovare il proprio posto preferito, per cui è assolutamente inutile stare di nuovo in fila prima della chiamata.
Ma tant'è…
Mi risiedo, attendo pazientemente che la mandria si scanni per il posto assegnato e poi, quando l'imbarco è quasi terminato, mi alzo e mi dirigo verso l'aereo in tutta tranquillità.
Io odio le code.
Nonostante questa idiosincrasia per la coda, però, l'italiano medio ha una capacità innata di creare una coda inutile dal nulla.
Arrivo in aeroporto con il mio solito congruo anticipo, e mi siedo di fronte al gabbiotto ancora vuoto che regola l'accesso ai gate dei voli per l'Inghilterra ed extra UE, in quanto è necessario il controllo dei documenti.
Non c'è ancora nessuno, se non un altro paio di persone sedute come me in paziente attesa dell'arrivo dei due poliziotti che apriranno gabbiotto e passaggio.
Leggo cinque minuti, non di più, e quando rialzo la testa, di fronte al gabbiotto ancora vuoto ci sono una ventina di persone in coda.
Manca più di un'ora all'imbarco, e questo stanno già in piedi in coda. Per cosa, poi?
Sembrano tante sentinelle in piedi.
Dopo una ventina di minuti la fila è già imponente, perché ogni nuovo arrivato si mette in coda. Il gabbiotto è sempre chiuso.
Quando apre, si avventano come se distribuissero pane gratis, senza rispettare la linea rossa della privacy e tutti, indistintamente, nella fila di sinistra, dove fa bella mostra il cartello “Cittadini UE”.
L'altra fila, il cui cartello recita “Tutti i passaporti” è vuota.
Mi alzo lentamente, mi guardo intorno, chiedo permesso e taglio la fila per andare allo sportello vuoto.
Panico.
La fila vacilla, tentenna, non si sbilancia. Poi dal fondo un tizio si muove dalla fila di sinistra e supera tutti per andare anche lui allo sportello vuoto.
Via, libera tutti. Gente che corre con borse, borsoni e trolley per andare allo sportello vuoto, travolgendo chiunque gli si pari davanti. Altri che ne approfittano e passano davanti nella fila di sinistra. La solita scena da mandria di bufali.
Intanto, oltre il controllo passaporti si ripete la medesima scena di prima.
Il gate è chiuso, le hostess non ci sono ancora, ma la gente è già tutta ammassata in fila, come se ci fosse un premio per chi si imbarca prima degli altri.
Da quando anche Ryanair assegna i posti numerati non c'è più bisogno di entrare per primi per trovare il proprio posto preferito, per cui è assolutamente inutile stare di nuovo in fila prima della chiamata.
Ma tant'è…
Mi risiedo, attendo pazientemente che la mandria si scanni per il posto assegnato e poi, quando l'imbarco è quasi terminato, mi alzo e mi dirigo verso l'aereo in tutta tranquillità.
Io odio le code.
lunedì 29 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/7
Dopo aver fato conoscenza con l'efficiente sistema sanitario inglese, quest'anno è stata la volta di testare quello americano, di cui si dicono peste e corna relativamente ai costi da sostenere per avere qualsiasi tipo di assistenza.
Non per nulla ogni volta che si va negli USA è buona norma stipulare un'assicurazione viaggio, non tanto per cose tipo perdita bagaglio, cancellazione volo, cazzi e mazzi vari che, spesso, sono già comprese nei pacchetti o nei biglietti che si acquistano, ma proprio per far fronte a qualsiasi tipo di emergenza medica che, nella terra a stelle e strisce, può presentare diversi problemi, primo tra tutti quello economico.
Prima di partire, perciò, avevo provveduto a stipulare apposita polizza a copertura dell'intero nucleo familiare, peritandomi di sceglierne una che prevedesse il pagamento diretto alle strutture sanitarie, per non correre il rischio, nel malaugurato caso si rendesse necessario, di dover anticipare cospicue somme che, spesso e volentieri, non sono disponibili nell'immediato all'estero. Dopo approfondite ricerche la mia scelta cadeva sulla polizza di una primaria compagnia europea che, nel 2015, era al primo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni più grandi nel mondo.
Come mi è sempre accaduto, l'assicurazione stava tranquillamente per esaurire la sua funzione di paracadute senza che avessi bisogno di utilizzarla, ma proprio l'ultimo giorno, accade il fattaccio.
Per recarci all'aeroporto di Chicago dobbiamo riprendere la Blue Line già utilizzata all'andata. La stazione vicina all'albergo, però, ha solo accessi tramite ripidissime scale, non proprio agevoli da percorrere con due valigioni da oltre venti kg., per cui partiamo alla ricerca della stazione di Jackson, che sulla mappa viene indicata come dotata di ingressi per disabili.
Gli ingressi per disabili si rivelano ben presto delle uscite, perchè le scale mobili funzionano solamente in salita e non in discesa. Tocca trascinarsi i valigioni sulle scale, per giunta viscide per la pioggia. La prima rampa va via liscia come l'olio. Arrivo al pianerottolo di metà rampa trascinando uno dei due borsoni e mi appresto a percorrere la seconda rampa.
Purtroppo il pianerottolo è più corto di quanto pensassi, ed arretrando di un altro passo, invece di trovarmi al limite del pianerottolo sento la terra mancarmi sotto i piedi. Accade tutto in un attimo, tento di aggrapparmi al mancorrente ma non ci riesco, e cado a peso morto di schiena, iniziando a rotolare. Non so da dove, mi viene l'istinto di tenere la testa alta, e dopo tre o quattro rotoloni finisco ai piedi della scala come un sacco di patate. Non ho battuto la testa, e questo è già un buon inizio. Arrivano i primi soccorsi (due ragazze mandate giù da Monica che sta ancora arrancando sulla scala con l'altro valigione) e mi rialzo in piedi un po' a fatica. Sembra che non abbia nulla di rotto, anche se ho dolori dappertutto. Mi sanguinano gomiti e ginocchia, e sono anche un po' rintronato, ma dopo qualche minuto necessario a riprendermi, decidiamo che possiamo andare in aeroporto senza grossi problemi.
L'addetta ai tornelli della stazione, calma e placida, non muove un dito. Evidentemente è abituata a vedere rotolare giù dalle scale le persone fin davanti al suo gabbiotto. Ci indica la porta dedicata ai disabili per passare con i bagagli (che ai tornelli non riusciremmo a far entrare), ma poi, al di là dei tornelli, ci aspetta un'altra ripidissima rampa di scale come quella dell'entrata. Ora, io capisco che avete il tornello dedicato ai disabili, ma uno in carrozzina, come diavolo fa ad arrivare al tornello dedicato, se ci sono solo rampe di scale? Mistero...
Comunque in qualche modo facciamo, e saliamo finalmente sulla Blue Line direzione O'Hare.
Il viaggio dura circa trenta minuti, il tempo necessario a tutti gli ematomi di questo mondo di fare la loro comparsa sul mio corpo.
Sulla tibia destra ho un bozzo grosso come un arancio, le ginocchia sono gonfie ed i gomiti anche. La schiena... lasciamo perdere, ogni volta che mi muovo scopro nuove costellazioni e galassie.
Arrivati in aeroporto andiamo alla ricerca di un presidio medico che possa darmi un'occhiata e, almeno, trattare e disinfettare le abrasioni che continuano a sanguinare. Scopriamo così che all'interno del terminal 2 c'è un presidio medico collegato all'Università dell'Illinois.
Piccolo problema: è dopo i controlli di sicurezza, ma il nostro check-in non è ancora aperto, per cui non possiamo lasciare i bagagli, e ovviamente di passare i controlli con i bagagli da imbarcare non se ne parla nemmeno. Meno male che almeno avevo fatto il check-in in albergo ed avevamo già le carte di imbarco, altrimenti avremmo comunque dovuto aspettare l'apertura del check.in.
Monica e Riccardo, quindi, mi aspetteranno con i bagagli. Io passerò i controlli ed andrò al presidio medico, per poi tornare e fare il check-in dei bagagli.
Passati i controlli, il presidio medico è subito dietro l'angolo, ed inizia una delle conversazioni più surreali che mi siano mai capitate.
Immaginate di essere l'impiegato della reception di questo presidio medico, e di vedervi arrivare una persona zoppicante, con un gomito e le ginocchia sanguinanti (non più troppo, in realtà e per fortuna, ma comunque sanguinanti), e di alzare a malapena lo sguardo dai documenti che state leggendo.
"Buongiorno, in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, sono caduto dalle scale..."
"E vorrebbe essere visitato da un medico?"
"Si, se possibile"
"Ha un'assicurazione?"
Ce l'ho!!! Ce l'ho!!!
"Si, ho l'assicurazione viaggio di..."
"E' americana?"
"No, è francese, ma è specifica per..."
"Se non è americana non mi interessa. Per essere ammesso all'ambulatorio deve pagare 185 dollari, dopodiché verrà visitato da un medico. Il costo della visita è 300 dollari. Eventuali esami, medicine e terapie sono a parte e non so quantificare il costo adesso".
"Non ho con me tutti questi soldi, ma..."
"Può pagare con carta di credito".
"Non credo di avere ancora molto plafond a disposizione, però la mia assicurazione..."
"La sua assicurazione non è americana e non mi interessa".
"Ma l'ho fatta apposta per queste evenienze, ha il pagamento diretto e..."
"Non accettiamo assicurazioni che non siano americane. Altrimenti solo contanti e carte di credito"
"Può almeno medicarmi le ferite?"
"Per essere ammesso all'ambulatorio deve pagare 185 dollari. Cure e medicine sono a parte".
Ti venisse un cancro al culo, cazzo... 185 dollari più chissà quant'altro per potermi disinfettare e mettere due cerotti e darmi un impacco di ghiaccio? Ma vaffanculo con tutto il cuore.
Esco dall'area imbarchi piuttosto incazzato e sconfortato, tornando dai miei familiari. Prendiamo una bottiglietta d'acqua dal distributore e la metto sul bozzo sulla gamba a mò di ghiaccio. Funziona a metà, ma almeno il bozzo smette di gonfiarsi e si assesta .
Dopo aver girato tutti i negozi dell'aeroporto, Monica riesce a trovare un minikit di primo soccorso con garze, cerotti ed un disinfettante in pomata. Meglio di niente.
Il viaggio di ritorno sarà piuttosto pesante. Per non sentire male devo stare fermo in una posizione sul sedile. Ovviamente il tizio davanti a me passa otto delle nove ore con il sedile reclinato sulle mie ginocchia doloranti, ma alla fine riusciamo a tornare a casa sani (all'incirca) e salvi.
A poco più di un mese dal fattaccio il bozzo sulla tibia non è ancora del tutto assorbito, ma il resto è a posto.
Resta solo da fare una verifica con l'assicurazione, grazie alla quale scopro una cosa interessante.
Il gentilissimo operatore dell'assistenza clienti mi dice che il pagamento diretto funziona solo con ospedali e cliniche, e non con gli ambulatori. Avrei dovuto pagare e poi mi avrebbero rimborsato tutto (eh... a poterlo fare...), o altrimenti avrei dovuto chiamare la centrale operativa e loro avrebbero potuto provare a convincere l'addetto a considerare l'assicurazione.
Devo ammettere che chiamare la centrale operative è stato l'ultimo dei miei pensieri. Errore mio, sicuramente. Nella concitazione del momento mi sono proprio dimenticato della centrale operativa, pensando che il contratto assicurativo bastasse. A posteriori, però, trovo abbastanza logico che la prima cosa che avrei dovuto fare fosse chiamare la centrale.
Alla fine della fiera, comunque, queste assicurazioni a rimessa diretta servono effettivamente solo per grossi eventi, per i quali vieni ricoverato in ospedali o cliniche. Avessi chiamato il 911 e mi fossi fatto trasportare al pronto soccorso, probabilmente sarebbe stato meglio. Avremmo di sicuro perso il volo, ma avrei ricevuto assistenza sanitaria adeguata, e tutto il resto sarebbe stato coperto dall'assicurazione, compreso il rientro posticipato ed i nuovi biglietti aerei.
Tutto facile e lineare, adesso. Quando ti capita qualcosa, però, non sempre riesci a non perdere la lucidità per capire effettivamente cosa sia meglio fare.
Sicuramente è meglio che non capiti nulla, così che non si ponga nemmeno il problema.
Resta il fatto, comunque, che quanto accaduto al centro clinico dell'aeroporto mi ha lasciato basito.
Leggo sul sito dell'aeroporto che "No appointment is necessary, and most insurance is accepted".
Posso dire "COL CAZZO!!!" ?
Non per nulla ogni volta che si va negli USA è buona norma stipulare un'assicurazione viaggio, non tanto per cose tipo perdita bagaglio, cancellazione volo, cazzi e mazzi vari che, spesso, sono già comprese nei pacchetti o nei biglietti che si acquistano, ma proprio per far fronte a qualsiasi tipo di emergenza medica che, nella terra a stelle e strisce, può presentare diversi problemi, primo tra tutti quello economico.
Prima di partire, perciò, avevo provveduto a stipulare apposita polizza a copertura dell'intero nucleo familiare, peritandomi di sceglierne una che prevedesse il pagamento diretto alle strutture sanitarie, per non correre il rischio, nel malaugurato caso si rendesse necessario, di dover anticipare cospicue somme che, spesso e volentieri, non sono disponibili nell'immediato all'estero. Dopo approfondite ricerche la mia scelta cadeva sulla polizza di una primaria compagnia europea che, nel 2015, era al primo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni più grandi nel mondo.
Come mi è sempre accaduto, l'assicurazione stava tranquillamente per esaurire la sua funzione di paracadute senza che avessi bisogno di utilizzarla, ma proprio l'ultimo giorno, accade il fattaccio.
Per recarci all'aeroporto di Chicago dobbiamo riprendere la Blue Line già utilizzata all'andata. La stazione vicina all'albergo, però, ha solo accessi tramite ripidissime scale, non proprio agevoli da percorrere con due valigioni da oltre venti kg., per cui partiamo alla ricerca della stazione di Jackson, che sulla mappa viene indicata come dotata di ingressi per disabili.
Le scale della stazione di Jackson |
Purtroppo il pianerottolo è più corto di quanto pensassi, ed arretrando di un altro passo, invece di trovarmi al limite del pianerottolo sento la terra mancarmi sotto i piedi. Accade tutto in un attimo, tento di aggrapparmi al mancorrente ma non ci riesco, e cado a peso morto di schiena, iniziando a rotolare. Non so da dove, mi viene l'istinto di tenere la testa alta, e dopo tre o quattro rotoloni finisco ai piedi della scala come un sacco di patate. Non ho battuto la testa, e questo è già un buon inizio. Arrivano i primi soccorsi (due ragazze mandate giù da Monica che sta ancora arrancando sulla scala con l'altro valigione) e mi rialzo in piedi un po' a fatica. Sembra che non abbia nulla di rotto, anche se ho dolori dappertutto. Mi sanguinano gomiti e ginocchia, e sono anche un po' rintronato, ma dopo qualche minuto necessario a riprendermi, decidiamo che possiamo andare in aeroporto senza grossi problemi.
L'addetta ai tornelli della stazione, calma e placida, non muove un dito. Evidentemente è abituata a vedere rotolare giù dalle scale le persone fin davanti al suo gabbiotto. Ci indica la porta dedicata ai disabili per passare con i bagagli (che ai tornelli non riusciremmo a far entrare), ma poi, al di là dei tornelli, ci aspetta un'altra ripidissima rampa di scale come quella dell'entrata. Ora, io capisco che avete il tornello dedicato ai disabili, ma uno in carrozzina, come diavolo fa ad arrivare al tornello dedicato, se ci sono solo rampe di scale? Mistero...
Comunque in qualche modo facciamo, e saliamo finalmente sulla Blue Line direzione O'Hare.
Il viaggio dura circa trenta minuti, il tempo necessario a tutti gli ematomi di questo mondo di fare la loro comparsa sul mio corpo.
Sulla tibia destra ho un bozzo grosso come un arancio, le ginocchia sono gonfie ed i gomiti anche. La schiena... lasciamo perdere, ogni volta che mi muovo scopro nuove costellazioni e galassie.
Arrivati in aeroporto andiamo alla ricerca di un presidio medico che possa darmi un'occhiata e, almeno, trattare e disinfettare le abrasioni che continuano a sanguinare. Scopriamo così che all'interno del terminal 2 c'è un presidio medico collegato all'Università dell'Illinois.
Piccolo problema: è dopo i controlli di sicurezza, ma il nostro check-in non è ancora aperto, per cui non possiamo lasciare i bagagli, e ovviamente di passare i controlli con i bagagli da imbarcare non se ne parla nemmeno. Meno male che almeno avevo fatto il check-in in albergo ed avevamo già le carte di imbarco, altrimenti avremmo comunque dovuto aspettare l'apertura del check.in.
Monica e Riccardo, quindi, mi aspetteranno con i bagagli. Io passerò i controlli ed andrò al presidio medico, per poi tornare e fare il check-in dei bagagli.
Passati i controlli, il presidio medico è subito dietro l'angolo, ed inizia una delle conversazioni più surreali che mi siano mai capitate.
Immaginate di essere l'impiegato della reception di questo presidio medico, e di vedervi arrivare una persona zoppicante, con un gomito e le ginocchia sanguinanti (non più troppo, in realtà e per fortuna, ma comunque sanguinanti), e di alzare a malapena lo sguardo dai documenti che state leggendo.
"Buongiorno, in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, sono caduto dalle scale..."
"E vorrebbe essere visitato da un medico?"
"Si, se possibile"
"Ha un'assicurazione?"
Ce l'ho!!! Ce l'ho!!!
"Si, ho l'assicurazione viaggio di..."
"E' americana?"
"No, è francese, ma è specifica per..."
"Se non è americana non mi interessa. Per essere ammesso all'ambulatorio deve pagare 185 dollari, dopodiché verrà visitato da un medico. Il costo della visita è 300 dollari. Eventuali esami, medicine e terapie sono a parte e non so quantificare il costo adesso".
"Non ho con me tutti questi soldi, ma..."
"Può pagare con carta di credito".
"Non credo di avere ancora molto plafond a disposizione, però la mia assicurazione..."
"La sua assicurazione non è americana e non mi interessa".
"Ma l'ho fatta apposta per queste evenienze, ha il pagamento diretto e..."
"Non accettiamo assicurazioni che non siano americane. Altrimenti solo contanti e carte di credito"
"Può almeno medicarmi le ferite?"
"Per essere ammesso all'ambulatorio deve pagare 185 dollari. Cure e medicine sono a parte".
Ti venisse un cancro al culo, cazzo... 185 dollari più chissà quant'altro per potermi disinfettare e mettere due cerotti e darmi un impacco di ghiaccio? Ma vaffanculo con tutto il cuore.
Presidio medico di O'Hare, a dx la simpatica receptionist. |
Dopo aver girato tutti i negozi dell'aeroporto, Monica riesce a trovare un minikit di primo soccorso con garze, cerotti ed un disinfettante in pomata. Meglio di niente.
Il viaggio di ritorno sarà piuttosto pesante. Per non sentire male devo stare fermo in una posizione sul sedile. Ovviamente il tizio davanti a me passa otto delle nove ore con il sedile reclinato sulle mie ginocchia doloranti, ma alla fine riusciamo a tornare a casa sani (all'incirca) e salvi.
A poco più di un mese dal fattaccio il bozzo sulla tibia non è ancora del tutto assorbito, ma il resto è a posto.
Resta solo da fare una verifica con l'assicurazione, grazie alla quale scopro una cosa interessante.
Il gentilissimo operatore dell'assistenza clienti mi dice che il pagamento diretto funziona solo con ospedali e cliniche, e non con gli ambulatori. Avrei dovuto pagare e poi mi avrebbero rimborsato tutto (eh... a poterlo fare...), o altrimenti avrei dovuto chiamare la centrale operativa e loro avrebbero potuto provare a convincere l'addetto a considerare l'assicurazione.
Devo ammettere che chiamare la centrale operative è stato l'ultimo dei miei pensieri. Errore mio, sicuramente. Nella concitazione del momento mi sono proprio dimenticato della centrale operativa, pensando che il contratto assicurativo bastasse. A posteriori, però, trovo abbastanza logico che la prima cosa che avrei dovuto fare fosse chiamare la centrale.
Alla fine della fiera, comunque, queste assicurazioni a rimessa diretta servono effettivamente solo per grossi eventi, per i quali vieni ricoverato in ospedali o cliniche. Avessi chiamato il 911 e mi fossi fatto trasportare al pronto soccorso, probabilmente sarebbe stato meglio. Avremmo di sicuro perso il volo, ma avrei ricevuto assistenza sanitaria adeguata, e tutto il resto sarebbe stato coperto dall'assicurazione, compreso il rientro posticipato ed i nuovi biglietti aerei.
Tutto facile e lineare, adesso. Quando ti capita qualcosa, però, non sempre riesci a non perdere la lucidità per capire effettivamente cosa sia meglio fare.
Sicuramente è meglio che non capiti nulla, così che non si ponga nemmeno il problema.
Resta il fatto, comunque, che quanto accaduto al centro clinico dell'aeroporto mi ha lasciato basito.
Leggo sul sito dell'aeroporto che "No appointment is necessary, and most insurance is accepted".
Posso dire "COL CAZZO!!!" ?
venerdì 26 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/6
E' arrivato il momento di restituire la macchina, per cui ci dirigiamo verso l'aeroporto di Chicago e diciamo addio alla confortevole Volkswagen Passat 2016 che ci ha accompagnato per circa 1000 miglia in questa settimana. Torniamo quindi al terminal da dove prendiamo la Blue Line per andare in centro a Chicago dove si trova il nostro albergo.
L'albergo è in una splendida posizione, a due passi dal Millennium Park e dal south loop, con tutte le cose interessanti a portata di breve camminata. Esattamente quello che ci vuole in una grande città il cui centro, a differenza di Milwaukee, è di estremo interesse.
Il panorama dalla finestra dell'ottavo piano ci fa immediatamente capire dove siamo finiti: niente più foreste verdi, casette isolate o highway con mall annesso, bensì un gruppo di grattacieli talmente folto da dare l'impressione che qualcuno li abbia tirati fuori da un sacco e lanciati così a caso sulle rive del Lago Michigan (ancora lui...). Spicca, per colore e forma, il grattacielo della Roosevelt University.
La zona dove ci troviamo fino a pochi anni fa era poco raccomandabile, ma nell'ultimo decennio è avvenuto un processo di gentrificazione che l'ha resa sicura e vivibile, ovviamente con prezzi altissimi. Cos'è la gentrificazione? Al di là della definizione generale, nel caso specifico di Chicago ha significato prendere gli abitanti storici della zona, sfrattarli dalle loro case, fornirgli un'alternativa abitativa (spesso non a Chicago ma all'interno dello stato dell'Illinois, magari anche a 200 miglia da Chicago), radere al suolo quello che non poteva essere ristrutturato e costruire ex novo palazzi, alberghi e servizi.
Il risultato è sicuramente eccellente. I modi per ottenerlo, forse, lo sono un po' meno.
Dopo un primo giro verso i giardini fronte lago, dove ammiriamo sia la Buckingham Fountain che il grosso fagiolone cromato chiamato "Cloud", ci addentriamo nel Loop e, superato il Chicago River entriamo nel bel mezzo della pletora di grattacieli che compongono il caratteristico skyline di Chicago. Trump Tower (pure qui... non ne bastava una a New York), il Wrigley's Building, il Chicagio Tribune Building, sono davvero spettacolari, soprattutto gli ultimi due in classica architettura dei primi del '900.
Più avanti c'è anche quella che ora si chiama 360 (formerly known as John Hancock Center), dal cui 95esimo piano di può godere di una vista strepitosa sulla città e sul Lago Michigan, a proposito del quale da questa altezza ci si può rendere conto di quanto sia esteso).
Ci sarebbe anche una simpatica attrazione chiamata "Tilt", dove ti aggrappi ad una finestra che poi si sporge verso l'esterno a 45 gradi, lasciandoti l'impressione di essere sospeso nel vuoto. No grazie, ci credo sia bellissimo, ma no grazie. Lascio l'onore ai giovani...
L'highlight della visita a Chicago è sicuramente la possibilità di conoscere finalmente di persona il mio amico Derrick. Ci conosciamo da almeno 20 anni per via telematica, essendo entrambi tifosi dei Rams e membri di una delle più longeve cybercomunità relative alla squadra, ed è la prima volta che finalmente ci incontriamo di persona.
Dopo un po' di discussioni e varie proposte, finiamo per dover sottostare all'invito di Derrick ad assaggiare la vera "Chicago-style Pizza", cosa a cui un italiano sembra non potersi sottrare.
Avevo già mangiato una cosa del genere a Boston, e mi era bastato, ma Derrick insiste che questa è tutta un'altra cosa, e ci porta addirittura nel miglior posto di Chicago per mangiare questo tipo di pizza: Lou Malnati's. In effetti, facendo qualche ricerca a posteriori, sembra che questo Lou Malnati sia veramente il posto più rinomato della città, e la moltitudine di gente che affolla il locale sembra confermare questa fama.
Dunque, la pizza di Chicago è spessa almeno due dita, sembra molto più una focaccia che una pizza, quella che compri dal panettiere, per intenderci, con una doppia dose di mozzarella e, nel nostro caso, di salsiccia, sulla quale viene posato uno spesso strato di pomodori pelati e schiacciati rigorosamente a crudo.
Il bordo della pizza viene poi schiacciato contro il bordo della teglia per dargli la caratteristica forma a balcone.
Sinceramente non posso dire che sia immangiabile. Però non chiamatela pizza, per favore. E sorvoliamo sul fatto che l'ho digerita tre giorni dopo, per cui non voglio sapere cosa ci fosse dentro quella pasta oltre ad una quantità di lievito esagerata.
Un altro highlight della giornata è il quartetto di musicisti che incontriamo nel pomeriggio di fronte al Millennium Park. All'angolo della strada ci sono un chitarrista, un bassista, un sassofonista ed un batterista (che suona con un secchio di plastica come rullante ed un altro come grancassa), che si esibiscono in un pezzo funky di cui purtroppo mi sfuggono titolo ed autore. Veramente bravi!!!
Chicago meriterebbe ben più del paio di giorni che le abbiamo dedicato, ma i prezzi degli alberghi sono davvero inavvicinabili per pensare ad un soggiorno più lungo, per cui ci tocca, a malincuore, rientrare.
Prima, però, è il caso di testare il sistema sanitario americano e l'assicurazione viaggio che ho stipulato prima di partire, ma per questo dovrete aspettare la prossima puntata.
L'albergo è in una splendida posizione, a due passi dal Millennium Park e dal south loop, con tutte le cose interessanti a portata di breve camminata. Esattamente quello che ci vuole in una grande città il cui centro, a differenza di Milwaukee, è di estremo interesse.
La vista dalla finestra della camera d'albergo |
La zona dove ci troviamo fino a pochi anni fa era poco raccomandabile, ma nell'ultimo decennio è avvenuto un processo di gentrificazione che l'ha resa sicura e vivibile, ovviamente con prezzi altissimi. Cos'è la gentrificazione? Al di là della definizione generale, nel caso specifico di Chicago ha significato prendere gli abitanti storici della zona, sfrattarli dalle loro case, fornirgli un'alternativa abitativa (spesso non a Chicago ma all'interno dello stato dell'Illinois, magari anche a 200 miglia da Chicago), radere al suolo quello che non poteva essere ristrutturato e costruire ex novo palazzi, alberghi e servizi.
Il risultato è sicuramente eccellente. I modi per ottenerlo, forse, lo sono un po' meno.
Dopo un primo giro verso i giardini fronte lago, dove ammiriamo sia la Buckingham Fountain che il grosso fagiolone cromato chiamato "Cloud", ci addentriamo nel Loop e, superato il Chicago River entriamo nel bel mezzo della pletora di grattacieli che compongono il caratteristico skyline di Chicago. Trump Tower (pure qui... non ne bastava una a New York), il Wrigley's Building, il Chicagio Tribune Building, sono davvero spettacolari, soprattutto gli ultimi due in classica architettura dei primi del '900.
Più avanti c'è anche quella che ora si chiama 360 (formerly known as John Hancock Center), dal cui 95esimo piano di può godere di una vista strepitosa sulla città e sul Lago Michigan, a proposito del quale da questa altezza ci si può rendere conto di quanto sia esteso).
Il TILT al 95esimo piano del 360 |
L'highlight della visita a Chicago è sicuramente la possibilità di conoscere finalmente di persona il mio amico Derrick. Ci conosciamo da almeno 20 anni per via telematica, essendo entrambi tifosi dei Rams e membri di una delle più longeve cybercomunità relative alla squadra, ed è la prima volta che finalmente ci incontriamo di persona.
Dopo un po' di discussioni e varie proposte, finiamo per dover sottostare all'invito di Derrick ad assaggiare la vera "Chicago-style Pizza", cosa a cui un italiano sembra non potersi sottrare.
Avevo già mangiato una cosa del genere a Boston, e mi era bastato, ma Derrick insiste che questa è tutta un'altra cosa, e ci porta addirittura nel miglior posto di Chicago per mangiare questo tipo di pizza: Lou Malnati's. In effetti, facendo qualche ricerca a posteriori, sembra che questo Lou Malnati sia veramente il posto più rinomato della città, e la moltitudine di gente che affolla il locale sembra confermare questa fama.
La "vera" Chicago-Style Pizza |
Il bordo della pizza viene poi schiacciato contro il bordo della teglia per dargli la caratteristica forma a balcone.
Sinceramente non posso dire che sia immangiabile. Però non chiamatela pizza, per favore. E sorvoliamo sul fatto che l'ho digerita tre giorni dopo, per cui non voglio sapere cosa ci fosse dentro quella pasta oltre ad una quantità di lievito esagerata.
Un altro highlight della giornata è il quartetto di musicisti che incontriamo nel pomeriggio di fronte al Millennium Park. All'angolo della strada ci sono un chitarrista, un bassista, un sassofonista ed un batterista (che suona con un secchio di plastica come rullante ed un altro come grancassa), che si esibiscono in un pezzo funky di cui purtroppo mi sfuggono titolo ed autore. Veramente bravi!!!
Chicago meriterebbe ben più del paio di giorni che le abbiamo dedicato, ma i prezzi degli alberghi sono davvero inavvicinabili per pensare ad un soggiorno più lungo, per cui ci tocca, a malincuore, rientrare.
Prima, però, è il caso di testare il sistema sanitario americano e l'assicurazione viaggio che ho stipulato prima di partire, ma per questo dovrete aspettare la prossima puntata.
mercoledì 24 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/5
Lasciato alle spalle il villaggio svizzero e la sua storia, arriviamo finalmente a Madison, la capitale del Wisconsin.
Se Green Bay è totalmente votata ai Packers, Madison è prettamente una città universitaria. Il campus dell'università del Wisconsin la fa da padrone estendendosi per quasi mezza città e permeando la vita di tutta la capitale.
Madison è una città stretta tra due laghi, il Mendota ed il Monona, con il Waubensa ed il Kegonsa appena fuori dai confini cittadini, che ha un interessante downtown strettamente collegata al campus universitario.
Su tutto svetta la cupola del campidoglio, estremità di un edificio a croce che ha molte similitudini con quello di Washington. La visita al Campidoglio è d'obbligo, ancorchè gratuita, ma quello che ci stupisce più di tutto è l'assoluta mancanza di qualsiasi norma di sicurezza e controllo. Siamo entrati nell'edificio e nessuno ci ha detto nulla. Nelle borse e nello zaino avremmo potuto avere qualsiasi arma, metal detector non ce n'erano e nessuno ci ha chiesto alcunchè o controllato in qualche modo.
In quel palazzo ci sono il Senato, la camera dei rappresentanti, la corte suprema; insomma, tutto il potere esecutivo e legislativo dello stato. Sarà che c'è l'allerta terrorismo, ma ci è sembrato piuttosto strano poter entrare senza il minimo controllo in un edificio così importante.
Ad ogni modo la visita è davvero interessante. Il palazzo è splendido, rifinito con marmi provenienti da tutto il mondo, affrescato e decorato in maniera davvero egregia, e dalla balconata della cupola, che ci dicono essere più grande di quella di Washington, si può ammirare uno splendido panorama sull'intera città.
A poche centinaia di metri di distanza dal campidoglio c'è la parte principale del campus universitario (altri edifici sono dalla parte opposta dalla città ed altri ancora sparsi in ogni dove).
I campus universitari, soprattutto quelli di università grandi come Wisconsin, sono davvero spettacolari. Ogni facoltà ha il suo palazzo dedicato, e spesso si tratta di edifici notevoli anche dal punto di vista architettonico. Non mancano le biblioteche, quella generale e quelle specializzate, ed i classici parchi e giardini, tenuti con una cura maniacale.
In cima alla collina troneggia la statua di Abraham Lincoln (visto anche a Milwaukee, da queste parti è una celebrità, pur essendo originario del Kentucky), ed alle spalle degli edifici principali del campus si nasconde lo stadio. Si nasconde, perchè da fuori sembra uno stadio qualsiasi.
Camp Randall Stadium è visitabile liberamente, senza biglietti di ingresso o tour guidati, e dopo aver imboccato un corridoio sui cui muri sono riportati nomi e foto dei più grandi giocatori di Wisconsin, attraverso un passaggio andiamo verso le gradinate.
Usciti sugli spalti lo spettacolo è grandioso. Con i suoi 80mila posti a sedere è uno degli stadi più grandi della Big Ten e degli Stati Uniti. Niente seggiolini o poltrone confortevoli, ma solo delle lunghe panche in alluminio, proprio come la maggior parte dei posti del Lambeau Field visti a Green Bay.
Ci prendiamo un po' di tempo per esplorare le tribune dello stadio e poi torniamo al campus. Nei dintorni del campus troviamo anche le case delle confraternite, tutte sbarrate e vuote, visto che siamo fuori stagione scolastica.
COme ultima attrazione di Madison decidiamo di andare a visitare lo zoo, descritto come molto bello. In realtà anche in questo caso molti spazi sono vuoti o in ristrutturazione, per cui la visita si esaurisce piuttosto rapidamente.
Approfittando del mall proprio di fronte al nostro albergo, facciamo l'ennesima scappata da "Dick's Sporting Goods", dove la salivazione aumenta a dismisura nel visitare i dipartimenti dedicati al football ed al golf.
La vacanza sta per volgere al termine. E' già ora di riconsegnare la macchina e traascorrere gli ultimi giorni a Chicago prima di riprendere l'aereo per tornare a casa.
Se Green Bay è totalmente votata ai Packers, Madison è prettamente una città universitaria. Il campus dell'università del Wisconsin la fa da padrone estendendosi per quasi mezza città e permeando la vita di tutta la capitale.
Madison è una città stretta tra due laghi, il Mendota ed il Monona, con il Waubensa ed il Kegonsa appena fuori dai confini cittadini, che ha un interessante downtown strettamente collegata al campus universitario.
Madison Capitol |
In quel palazzo ci sono il Senato, la camera dei rappresentanti, la corte suprema; insomma, tutto il potere esecutivo e legislativo dello stato. Sarà che c'è l'allerta terrorismo, ma ci è sembrato piuttosto strano poter entrare senza il minimo controllo in un edificio così importante.
Ad ogni modo la visita è davvero interessante. Il palazzo è splendido, rifinito con marmi provenienti da tutto il mondo, affrescato e decorato in maniera davvero egregia, e dalla balconata della cupola, che ci dicono essere più grande di quella di Washington, si può ammirare uno splendido panorama sull'intera città.
A poche centinaia di metri di distanza dal campidoglio c'è la parte principale del campus universitario (altri edifici sono dalla parte opposta dalla città ed altri ancora sparsi in ogni dove).
I campus universitari, soprattutto quelli di università grandi come Wisconsin, sono davvero spettacolari. Ogni facoltà ha il suo palazzo dedicato, e spesso si tratta di edifici notevoli anche dal punto di vista architettonico. Non mancano le biblioteche, quella generale e quelle specializzate, ed i classici parchi e giardini, tenuti con una cura maniacale.
In cima alla collina troneggia la statua di Abraham Lincoln (visto anche a Milwaukee, da queste parti è una celebrità, pur essendo originario del Kentucky), ed alle spalle degli edifici principali del campus si nasconde lo stadio. Si nasconde, perchè da fuori sembra uno stadio qualsiasi.
Badger Alley al Camp Randall Stadium |
Usciti sugli spalti lo spettacolo è grandioso. Con i suoi 80mila posti a sedere è uno degli stadi più grandi della Big Ten e degli Stati Uniti. Niente seggiolini o poltrone confortevoli, ma solo delle lunghe panche in alluminio, proprio come la maggior parte dei posti del Lambeau Field visti a Green Bay.
Camp Randall Stadium |
COme ultima attrazione di Madison decidiamo di andare a visitare lo zoo, descritto come molto bello. In realtà anche in questo caso molti spazi sono vuoti o in ristrutturazione, per cui la visita si esaurisce piuttosto rapidamente.
Approfittando del mall proprio di fronte al nostro albergo, facciamo l'ennesima scappata da "Dick's Sporting Goods", dove la salivazione aumenta a dismisura nel visitare i dipartimenti dedicati al football ed al golf.
La vacanza sta per volgere al termine. E' già ora di riconsegnare la macchina e traascorrere gli ultimi giorni a Chicago prima di riprendere l'aereo per tornare a casa.
lunedì 22 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/4
Il viaggio tra Milwaukee e Madison è ancor più breve di quello tra Green Bay e Milwaukee, per cui decidiamo di aggiungere una tappa intermedia a New Glarus la solita ridente cittadina nel mezzo del nulla che però, a differenza di molte altre, ha una storia piuttosto interessante.
New Glarus è situata circa 25 miglia a sud di Madison, ed è una piccola colonia svizzera nel bel mezzo del Wisconsin che conta poco più di duemila anime.
Glarus è il capoluogo dell'omonimo cantone svizzero (in italiano: Glarona) dove, nel 1844 la rivoluzione industriale picchiò particolarmente duro. Gli abitanti di Glarus, infatti, erano specializzati nella decorazione di tessuti ed ornamenti, attività che venne man mano automatizzata grazie alle nuove macchine inventate all'epoca. In quell'anno, quindi, venne deciso di cercare fortuna nel nuovo mondo, e vennero inviati due emissari con il compito di acquistare un pezzo di terreno su cui costruire un villaggio.
Dopo un lungo girovagare tra Ohio, Illinois, Indiana e Missouri, tutti stati in cui il terreno aveva costi proibitivi, i due svizzeri si spinsero fino in Wisconsin, dove il terreno costava pochissimo a causa delle difficili condizioni ambientali, soprattutto in inverno, che lo rendevano piuttosto inospitale.
Era fatta: Glarus poteva andare a colonizzare il nuovo mondo.
Nell'aprile del 1845, 193 emigranti salparono da Rotterdam alla volta di Baltimore su una nave la cui capienza prevista era di poco più di 100 persone. Nella stiva erano accumulati chili e chili di patate che costituivano il principale mezzo di sostentamento degli emigranti, ma dopo qualche giorno, causa anche infiltrazioni di acqua, le patate furono buttate perchè completamente marce.
Il viaggio durò circa quattro mesi, e per tutti i 120 giorni questi poveracci si nutrirono di gallette rafferme e acqua piovana. Qualcuno, ovviamente, ci lasciò le penne, tra gli 86 adulti ed i 107 bambini stipati in quella carretta del mare.
Barconi strapieni, morti in mare, fame, bambini... uhm... dove ho già visto queste scene?
Ad ogni buon conto, i "colonizzatrori" riuscirono, in maniera piuttosto avventurosa, a raggiungere le terre acquistate dai loro concittadini, e diedero vita al villaggio di New Glarus.
All'interno del villaggio sembrava di essere in Svizzera. Si parlava tedesco, si insegnava in tedesco, e nessuno sforzo veniva fatto per l'integrazione nel nuovo paese che li ospitava.
Anche qui... dove ho già visto queste scene?
L'opportunità la diede la guerra civile che scoppiò di lì a poco. Per cercare di ingrossare il più possibile le fila dell'esercito, venne stabilito che chi si fosse arruolato per le giubbe blu avrebbe ottenuto, se già non l'aveva di suo, la cittadinanza americana per sè e per i propri familiari.
Molti baldi giovani di New Glarus, dunque, non persero l'occasione, un po' attirati dalla possibilità di regolarizzare la loro cittadinanza, un po' perchè nei primi anni a New Glarus non è che ci fosse tutto questo lavoro e benessere (da decoratori di tessuti avevano dovuto improvvisarsi agricoltori e formaggiai), per cui la paga certa dell'esercito faceva più che comodo.
Alla fine il villaggio riuscì a svilupparsi ed a crescere fino a diventare un importante centro di produzione di formaggi e birra, ed oggi rimane un agglomerato di casette in legno che costituiscono lo "Swiss Hstorical Village & Museum", visitabile ad un prezzo irrisorio con una gentilissima ragazza che vi racconta tutto quel che c'è da sapere su questo villaggio e sulla sua storia.
Ah, se per caso ve lo chiedeste, nel villaggio si iniziò a parlare inglese tra la prima e la seconda guerra mondiale, e la scuola interna di New Glarus iniziò le lezioni in inglese solo dopo il secondo conflitto mondiale, quando il governo gli impose di usare la lingua ufficiale del paese.
In quanto alle tradizioni, beh, quelle svizzere sono dure a morire, nonostante tutto, ed è più facile vedere una bandiera rossocrociata o di un cantone svizzero piuttosto che quella a stelle e strisce nel giardino di casa, a differenza di tutto il resto del paese, dove la stars and stripes regna ovunque.
E' proprio vero che a volte le opportunità bisogna concederle, agli emigranti, senza stare troppo a sottilizzare sugli usi e costumi.
New Glarus è situata circa 25 miglia a sud di Madison, ed è una piccola colonia svizzera nel bel mezzo del Wisconsin che conta poco più di duemila anime.
Glarus è il capoluogo dell'omonimo cantone svizzero (in italiano: Glarona) dove, nel 1844 la rivoluzione industriale picchiò particolarmente duro. Gli abitanti di Glarus, infatti, erano specializzati nella decorazione di tessuti ed ornamenti, attività che venne man mano automatizzata grazie alle nuove macchine inventate all'epoca. In quell'anno, quindi, venne deciso di cercare fortuna nel nuovo mondo, e vennero inviati due emissari con il compito di acquistare un pezzo di terreno su cui costruire un villaggio.
Dopo un lungo girovagare tra Ohio, Illinois, Indiana e Missouri, tutti stati in cui il terreno aveva costi proibitivi, i due svizzeri si spinsero fino in Wisconsin, dove il terreno costava pochissimo a causa delle difficili condizioni ambientali, soprattutto in inverno, che lo rendevano piuttosto inospitale.
Era fatta: Glarus poteva andare a colonizzare il nuovo mondo.
Settlers' Cabin |
Il viaggio durò circa quattro mesi, e per tutti i 120 giorni questi poveracci si nutrirono di gallette rafferme e acqua piovana. Qualcuno, ovviamente, ci lasciò le penne, tra gli 86 adulti ed i 107 bambini stipati in quella carretta del mare.
Barconi strapieni, morti in mare, fame, bambini... uhm... dove ho già visto queste scene?
Ad ogni buon conto, i "colonizzatrori" riuscirono, in maniera piuttosto avventurosa, a raggiungere le terre acquistate dai loro concittadini, e diedero vita al villaggio di New Glarus.
All'interno del villaggio sembrava di essere in Svizzera. Si parlava tedesco, si insegnava in tedesco, e nessuno sforzo veniva fatto per l'integrazione nel nuovo paese che li ospitava.
Anche qui... dove ho già visto queste scene?
L'opportunità la diede la guerra civile che scoppiò di lì a poco. Per cercare di ingrossare il più possibile le fila dell'esercito, venne stabilito che chi si fosse arruolato per le giubbe blu avrebbe ottenuto, se già non l'aveva di suo, la cittadinanza americana per sè e per i propri familiari.
Molti baldi giovani di New Glarus, dunque, non persero l'occasione, un po' attirati dalla possibilità di regolarizzare la loro cittadinanza, un po' perchè nei primi anni a New Glarus non è che ci fosse tutto questo lavoro e benessere (da decoratori di tessuti avevano dovuto improvvisarsi agricoltori e formaggiai), per cui la paga certa dell'esercito faceva più che comodo.
New Glarus |
Ah, se per caso ve lo chiedeste, nel villaggio si iniziò a parlare inglese tra la prima e la seconda guerra mondiale, e la scuola interna di New Glarus iniziò le lezioni in inglese solo dopo il secondo conflitto mondiale, quando il governo gli impose di usare la lingua ufficiale del paese.
In quanto alle tradizioni, beh, quelle svizzere sono dure a morire, nonostante tutto, ed è più facile vedere una bandiera rossocrociata o di un cantone svizzero piuttosto che quella a stelle e strisce nel giardino di casa, a differenza di tutto il resto del paese, dove la stars and stripes regna ovunque.
E' proprio vero che a volte le opportunità bisogna concederle, agli emigranti, senza stare troppo a sottilizzare sugli usi e costumi.
venerdì 19 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/3
Un po' a malincuore si lascia la baia verde, con la consapevolezza che un giorno in più per visitare per bene la città non ci sarebbe stato male.
Dopo un viaggio che non prenderebbe più di un paio d'ore, se non fosse per le soste nei mall che incontriamo lungo il percorso che ne raddoppiano (ma anche di più) la durata, arriviamo a Milwaukee.
Milwaukee è una di quelle classiche fregature da guida turistica. Avevo già fatto una simmile esperienza in occasione del mio primo viaggio in USA/Canada nel 1990 quando, attratti dalle tre stelle che la guida Michelin assegnava al posto, Guido ed io decidemmo di trascorrere ben tre giorni a Kingston. Giamaica? No: Ontario. Un posto sperduto in mezzo a mille isole (che in effetti sono l'unica attrazione locale con una bella crociera di mezza giornata) di cui il solo ricordo degno di nota è relativo all'episodio dei quattro piolli e mezzo fritti a testa che ci "obbligammo" a mangiare al KFC locale (ma questa è un'altra storia...).
L'albergo è in un sobborgo prevalentemente nero e, senza voler passare per razzisti, la cosa cvi inquieta non poco. Non per nulla le rivolte di questi giorni a Milwaukee dove si svolgono? Esatto: proprio in quel quartiere, a pochi isolati dal nostro albergo.
Milwaukee, nell'immaginario collettivo di noi che siamo cresciuti a pane e Happy Days, significa Richie Cunningham, Fonzie, la Loggia del Leopardo ed il suo Gran Puba, Arnold's e quella splendida casetta (casa Cunningham) che vedevamo sempre in ogni puntata.
Ora, dovete sapere che Happy Days fu girato interamente in California. La casa dei Cunningham sta a Los Angeles, precisamente al 565 di North Cahuenga Boulevard e Arnold's non era che una facciata di legno allestita nei Paramount Studios di Hollywood, dove vennero girati praticamente tutti gli episodi.
Va da sè, quindi, che cercare un qualsiasi collegamento alla serie televisiva a Milwaukee è assolutamente inutile. L'unica cosa che si può trovare è la statua in bronzo di Fonzie (Bronz Fonz) all'inizio del Milwaukee Riverwalk, una delle poche zone interessanti della città.
Comq in tutto il resto del Wisconsin, la città è un cantiere aperto, ma ci viene spiegato che qui i lavori bisogna farli d'estate, che si tratti di costruire case o di riparare strade o di ristrutturare edifici. In inverno, infatti, gelo e neve impediscono qualsiasi attività esterna, e da questa parti quando nevica non si risparmia di certo, per non parlare del freddo.
Per il resto la città ci sembra un po' anonima, con un bel parco sul fronte lago (ma quanto è grande questo lago Michigan?) ma poco altro di interessante, se non il già citato River Walk.
Come tantissime zone centrali delle città americane, downtown sembra dedicata interamente ad uffici, con poche attrazioni e servizi turistici. Sarà che noi Europei siamo abituati a considerare "il centro città" come la cosa più attraente dal punto di vista turistico, sarà che gli Stati Uniti tradizionalmente sono piuttosto restii a preservare i centri storici, preferendo spesso demolire e ricostruire da zero, spesso annientando anni di storia in un amen, ma girare in centro a Milwaukee non ci dà alcuna soddisfazione.
Mentre lasciamo la città senza alcun rimpianto, sulla superstrada che ci dovrebbe portare verso la nostra prossima tappa, Madison, si staglia all'improvviso, dopo una curva, Miller Park, lo stadio dei Milwaukee Brewers di baseball. La costruzione è davvero imponente, ed il fatto che lo stadio sia costruito all'interno di un grosso parco aiuta a renderlo ancora più maestoso. Sono talmente distratto dallo stadio che rischio di mancare lo svincolo, che imbocco con una manovra all'italiana tagliando la strada ad una signora in Mercedes la quale, nonostante avesse ampia possibilità di frenare, mi regala due colpi di clacson indispettita. In Italia nessuno ci avrebbe fatto caso, ma per gli standard di guida americani ho fatto una manovra davvero azzardata e me ne prendo la responsabilità, scusandomi a distanza con la signora.
Dopo un viaggio che non prenderebbe più di un paio d'ore, se non fosse per le soste nei mall che incontriamo lungo il percorso che ne raddoppiano (ma anche di più) la durata, arriviamo a Milwaukee.
Milwaukee è una di quelle classiche fregature da guida turistica. Avevo già fatto una simmile esperienza in occasione del mio primo viaggio in USA/Canada nel 1990 quando, attratti dalle tre stelle che la guida Michelin assegnava al posto, Guido ed io decidemmo di trascorrere ben tre giorni a Kingston. Giamaica? No: Ontario. Un posto sperduto in mezzo a mille isole (che in effetti sono l'unica attrazione locale con una bella crociera di mezza giornata) di cui il solo ricordo degno di nota è relativo all'episodio dei quattro piolli e mezzo fritti a testa che ci "obbligammo" a mangiare al KFC locale (ma questa è un'altra storia...).
L'albergo è in un sobborgo prevalentemente nero e, senza voler passare per razzisti, la cosa cvi inquieta non poco. Non per nulla le rivolte di questi giorni a Milwaukee dove si svolgono? Esatto: proprio in quel quartiere, a pochi isolati dal nostro albergo.
Milwaukee, nell'immaginario collettivo di noi che siamo cresciuti a pane e Happy Days, significa Richie Cunningham, Fonzie, la Loggia del Leopardo ed il suo Gran Puba, Arnold's e quella splendida casetta (casa Cunningham) che vedevamo sempre in ogni puntata.
Ora, dovete sapere che Happy Days fu girato interamente in California. La casa dei Cunningham sta a Los Angeles, precisamente al 565 di North Cahuenga Boulevard e Arnold's non era che una facciata di legno allestita nei Paramount Studios di Hollywood, dove vennero girati praticamente tutti gli episodi.
Bronze Fonz |
Comq in tutto il resto del Wisconsin, la città è un cantiere aperto, ma ci viene spiegato che qui i lavori bisogna farli d'estate, che si tratti di costruire case o di riparare strade o di ristrutturare edifici. In inverno, infatti, gelo e neve impediscono qualsiasi attività esterna, e da questa parti quando nevica non si risparmia di certo, per non parlare del freddo.
Per il resto la città ci sembra un po' anonima, con un bel parco sul fronte lago (ma quanto è grande questo lago Michigan?) ma poco altro di interessante, se non il già citato River Walk.
Come tantissime zone centrali delle città americane, downtown sembra dedicata interamente ad uffici, con poche attrazioni e servizi turistici. Sarà che noi Europei siamo abituati a considerare "il centro città" come la cosa più attraente dal punto di vista turistico, sarà che gli Stati Uniti tradizionalmente sono piuttosto restii a preservare i centri storici, preferendo spesso demolire e ricostruire da zero, spesso annientando anni di storia in un amen, ma girare in centro a Milwaukee non ci dà alcuna soddisfazione.
Il Lago Michigan |
venerdì 5 agosto 2016
USA 2016: Diario di viaggio/2
Dopo la rapida visita a Janesville, dove riusciamo a non incrociare anima viva praticamente per tutta la durata del giro di downtown (un’ora scarsa, bisogna ammettere), ci mettiamo in macchina e ci dirigiamo verso Green Bay, dove ci aspetta la grande serata che ha originato il tutto.
La tensione, già a livello di guardia nei giorni precedenti, sale ulteriormente con l’avvicinarsi dell’evento. Parlare di fronte ad una platea competente non è un problema. Doverlo fare in inglese, e dover poi sostenere una sessione di Q&A mi preoccupa molto. Mi sono scritto l’intervento, a costo di fare il “lettore di telegiornale”, ma il terrore di impappinarmi è troppo grande per rischiare.
Arrivati a Titletown, c’è appena il tempo di rilassarsi un attimo, scendere nella hall, conoscere finalmente dal vivo Mark (il traduttore del mio libro) dopo un’amicizia virtuale che dura da più di dieci anni ed infilarsi nuovamente in macchina per raggiungere il Lambeau Field.
Come la stragrande maggioranze degli stadi USA, l’edificio del Lambeau Field è imponente, e da fuori tutto sembra fuorché uno stadio. Dentro è splendido. L’atrio ospita le biglietterie, un ristorante, la hall of fame, il team shop davvero gigantesco dove si può trovare qualsiasi cosa (e dico QUALSIASI COSA) marchiata Packers ed ovviamente l’accesso alle strutture complementari come le sale conferenze ed i saloni degli eventi. Lo stadio vive 24/7/365. E’ vuoto solamente quando è chiuso, altrimenti si trovano sempre visitatori, turisti, persone che partecipano ai vari eventi organizzati nella struttura, come convegni (come quello a cui partecipo io), feste di compleanno, matrimoni e chi più ne ha più ne metta. Come ci spiegherà la guida durante il tour dello stadio, l’ultima ristrutturazione avvenuta con l’ultima emissione di azioni della squadra (i Packers sono l’esempio più fulgido, coltre che unico nello sport professionistico americano, dell’azionariato popolare) ha trasformato lo stadio da luogo da frequentare durante le partite e, forse, gli allenamenti, a polo di attrazione permanente, con tutta una serie di attività che lo tengono costantemente in movimento facendo entrare nelle casse dei Packers un flusso costante e consistente di presidenti morti ogni singolo giorno.
La Convention ha inizio e, dopo i primi due interventi sulla storia dei Packers in generale e di quelli del 1966 in particolare, tocca a me. Dopo un breve impaccio iniziale la presentazione scorre via liscia come l’olio, riscuotendo notevole interesse tra i partecipanti che, terminata la mezz’ora dedicata all’argomento, mi premiano con una sessione di Q&A decisamente consistente. La curiosità nei confronti del football in Europa ed in Italia è grande, ed anche persone a cui non ho nulla da insegnare sulla storia del football come l’audience che ho di fronte, fanno domande, chiedono delucidazioni, commentano con interesse. Insomma, tutte le mie preoccupazioni svaniscono in un niente e potrei andare avanti all’infinito, se solo non ci fosse ancora un intervento dopo il mio. Avrò comunque modo di parlare con diverse persone tra fine serata ed il giorno successivo, quando si avvicineranno uno ad uno a chiedere ancora mille cose sul football italiano ed europeo. I complimenti si sprecano e la soddisfazione aumenta a dismisura. Sinceramente mi aspettavo un’accoglienza meno calorosa e molto meno interesse per l’argomento.
La convention prosegue anche il giorno successivo, quando Bob Long e Zeke Bratkowski, due giocatori dei Packers del 1966, ci fanno passare una splendida mattinata ad ascoltarli raccontare aneddoti sulla squadra, su Vince Lombardi e sulla NFL di quei tempi.
Il tutto si conclude con un tour del Lambeau Field e della Green Bay Packers Hall of Fame, a chiudere una due giorni stupenda.
La domenica mattina si replica il tour dello stadio per condividerlo con moglie e figlio, e si aggiunge anche una minivisita alla città prima di ripartire per la prossima tappa: Milwaukee.
Green Bay necessiterebbe probabilmente almeno di un altro giorno per poterla visitare come si deve. Purtroppo le tappe forzate di questo viaggio non ci lasciano spazio di manovra ma, come scopriremo presto, sarebbe stato meglio rosicchiare del tempo a Milwaukee per dedicarlo a Green Bay, perché la città di Fonzie sarà una delusione assoluta.
Durante la visita del Lambeau Field si sale in cima al tabellone dello stadio, il punto più alto di tutta la città, e da lì si può apprezzare il motivo per cui la città porta quel nome: una distesa verde di alberi a perdita d’occhio si apre in ogni direzione, nascondendo persino il Lago Michigan (che piccolino non è, misurando in superficie due volte il Piemonte…). Per il resto, la città vive, respira ed è votata ai Packers in ogni sua parte. Già il fatto che la popolazione sia di 100mila abitanti e lo stadio ne possa contenere più di 80mila dovrebbe dare da pensare a quanto questa comunità sia legata alla propria squadra di football.
Vicino allo stadio le vie hanno nomi leggendari: Lombardi Avenue, Holmgren Way, Reggie White Way, Bart Starr Road, Tony Canadeo Run, Mike McCarthy Way. In zona c’è anche una S Norwood Avenue, ma dopo un po’ diventa N Norwood Avenue, fugando qualsiasi dubbio sul perché a Green Bay avessero avuto la necessità di intitolare una via a Scott “Wide Right” Norwood.
Lasciamo Titletown un po’ a malincuore, a dire il vero, ma quel “prima di morire vedrò una partita dei Packers al Lambeau a Dicembre sotto la neve” resta sempre valido. Chissà che un giorno…
La tensione, già a livello di guardia nei giorni precedenti, sale ulteriormente con l’avvicinarsi dell’evento. Parlare di fronte ad una platea competente non è un problema. Doverlo fare in inglese, e dover poi sostenere una sessione di Q&A mi preoccupa molto. Mi sono scritto l’intervento, a costo di fare il “lettore di telegiornale”, ma il terrore di impappinarmi è troppo grande per rischiare.
Arrivati a Titletown, c’è appena il tempo di rilassarsi un attimo, scendere nella hall, conoscere finalmente dal vivo Mark (il traduttore del mio libro) dopo un’amicizia virtuale che dura da più di dieci anni ed infilarsi nuovamente in macchina per raggiungere il Lambeau Field.
Come la stragrande maggioranze degli stadi USA, l’edificio del Lambeau Field è imponente, e da fuori tutto sembra fuorché uno stadio. Dentro è splendido. L’atrio ospita le biglietterie, un ristorante, la hall of fame, il team shop davvero gigantesco dove si può trovare qualsiasi cosa (e dico QUALSIASI COSA) marchiata Packers ed ovviamente l’accesso alle strutture complementari come le sale conferenze ed i saloni degli eventi. Lo stadio vive 24/7/365. E’ vuoto solamente quando è chiuso, altrimenti si trovano sempre visitatori, turisti, persone che partecipano ai vari eventi organizzati nella struttura, come convegni (come quello a cui partecipo io), feste di compleanno, matrimoni e chi più ne ha più ne metta. Come ci spiegherà la guida durante il tour dello stadio, l’ultima ristrutturazione avvenuta con l’ultima emissione di azioni della squadra (i Packers sono l’esempio più fulgido, coltre che unico nello sport professionistico americano, dell’azionariato popolare) ha trasformato lo stadio da luogo da frequentare durante le partite e, forse, gli allenamenti, a polo di attrazione permanente, con tutta una serie di attività che lo tengono costantemente in movimento facendo entrare nelle casse dei Packers un flusso costante e consistente di presidenti morti ogni singolo giorno.
P.F.R.A. 2016 Meeting |
La convention prosegue anche il giorno successivo, quando Bob Long e Zeke Bratkowski, due giocatori dei Packers del 1966, ci fanno passare una splendida mattinata ad ascoltarli raccontare aneddoti sulla squadra, su Vince Lombardi e sulla NFL di quei tempi.
Il tutto si conclude con un tour del Lambeau Field e della Green Bay Packers Hall of Fame, a chiudere una due giorni stupenda.
Lambeau Field |
Green Bay necessiterebbe probabilmente almeno di un altro giorno per poterla visitare come si deve. Purtroppo le tappe forzate di questo viaggio non ci lasciano spazio di manovra ma, come scopriremo presto, sarebbe stato meglio rosicchiare del tempo a Milwaukee per dedicarlo a Green Bay, perché la città di Fonzie sarà una delusione assoluta.
Durante la visita del Lambeau Field si sale in cima al tabellone dello stadio, il punto più alto di tutta la città, e da lì si può apprezzare il motivo per cui la città porta quel nome: una distesa verde di alberi a perdita d’occhio si apre in ogni direzione, nascondendo persino il Lago Michigan (che piccolino non è, misurando in superficie due volte il Piemonte…). Per il resto, la città vive, respira ed è votata ai Packers in ogni sua parte. Già il fatto che la popolazione sia di 100mila abitanti e lo stadio ne possa contenere più di 80mila dovrebbe dare da pensare a quanto questa comunità sia legata alla propria squadra di football.
Packers Hall of Fame |
Lasciamo Titletown un po’ a malincuore, a dire il vero, ma quel “prima di morire vedrò una partita dei Packers al Lambeau a Dicembre sotto la neve” resta sempre valido. Chissà che un giorno…
lunedì 1 agosto 2016
USA 2016: diario di viaggio /1
Eccoci arrivati al diario di viaggio di quest'anno. Dopo sedici anni si ritorna oltreoceano grazie ad una serie di circostanze fortuite. Lo scorso anno mi viene proposta la possibilità di presentare il mio libro alla convention biennale della Professional Football Researchers Association di cui sono membro da quasi due decadi. L'occasione è ghiotta, la convention si tiene a Green Bay, all'interno del mitico Lambeau Field, e farsela sfuggire sarebbe un delitto. Inizialmente penso ad un mordi e fuggi durante il weekend della convention, ma giustamente i miei due coinquilini (incidentalmente moglie e figlio) mi dicono che "col cazzo che ci vai da solo... Veniamo pure noi!!!".
A questo punto il weekend si trasforma in vacanza vera e propria, anche se il periodo non +è proprio il migliore per una vacanza di famiglia negli Stati Uniti. I primi quindici giorni di luglio, infatti, sono considerati stagione altissimissima, onde per cui i biglietti aerei costano una cifra spropositata. A nulla serve tenerli in osservazione fin dallo scorso settembre. A Febbraio ci rassegniamo ad acquistarli alla modica cifra di 900 euro a cranio, mentre constatiamo con piacere che sarebbe bastato partire dopo il 15 luglio per pagarli quasi la metà.
In realtà un modo per arrivare a Chicago con circa 700 euro ci sarebbe anche: basta volare con Turkish su Istanbul e poi da lì andare in USA. Opzione immediatamente scartata, vista che la Turchia non ci sembra proprio il posto ideale per la sicurezza (e quanto siamo stati profetici, tra attentato all'aeroporto e colpo di stato...). Allo stesso modo vengono scartate soluzioni con scalo in Francia e Germania, per cui il nostro viaggio ci vedrà partire alla volta di Madrid, dove prenderemo poi l'intercontinentale per Chicago.
Durante il viaggio, grazie al mirabolante sistema di intrattenimento di Iberia (che differenza rispetto a quindici anni fa, quando avevi a disposizione tre o quattro film da vedere, fortunatamente diversi tra andata e ritorno), riesco finalmente a vedere "Blind Side", tenuto colpevolmente sull'hard disk per anni con la convinzione che tanto "uno di questi giorni lo guardo...". Ecco... se avete l'occasione, guardate la scena finale in lingua originale e poi in italiano: quando Goodell annuncia il draft di Oher la traduzione è a dir poco orrenda.
Atterrati finalmente a Chicago, andiamo allo sportello Budget dove ci attende una fantastica Volkswagen Passat che ci accompagnerà per le strade di Illinois e Wisconsin in tutta tranquillità e sicurezza, avendo un sistema di guida semiautomatica decisamente comodo.
Prima tappa del viaggio: Janesville, una ridente (as usual) cittadina nel bel mezzo del nulla nel Wisconsin, scelta principalmente perchè ci permette di spezzare il trasferimento verso Green Bay in due giorni. Non che la distanza fosse siderale, ma quando arriviamo a Janesville è praticamente ora di cena, e le 19 del Wisconsin corrispondono alle 2 del mattino per noi italiani. Essendoci alzati alle 4 del mattino per andare in aeroporto, risulta in una bella 22 ore in tirata unica. Magari evitare di guidare altre due ore è meglio.
Al mattino dopo, riposati e ristorati, dopo una breve (perché non c'è assolutamente nulla da vedere) visita a Janesville, si parte per la destinazione principale di questo viaggio: Green Bay.
A questo punto il weekend si trasforma in vacanza vera e propria, anche se il periodo non +è proprio il migliore per una vacanza di famiglia negli Stati Uniti. I primi quindici giorni di luglio, infatti, sono considerati stagione altissimissima, onde per cui i biglietti aerei costano una cifra spropositata. A nulla serve tenerli in osservazione fin dallo scorso settembre. A Febbraio ci rassegniamo ad acquistarli alla modica cifra di 900 euro a cranio, mentre constatiamo con piacere che sarebbe bastato partire dopo il 15 luglio per pagarli quasi la metà.
In realtà un modo per arrivare a Chicago con circa 700 euro ci sarebbe anche: basta volare con Turkish su Istanbul e poi da lì andare in USA. Opzione immediatamente scartata, vista che la Turchia non ci sembra proprio il posto ideale per la sicurezza (e quanto siamo stati profetici, tra attentato all'aeroporto e colpo di stato...). Allo stesso modo vengono scartate soluzioni con scalo in Francia e Germania, per cui il nostro viaggio ci vedrà partire alla volta di Madrid, dove prenderemo poi l'intercontinentale per Chicago.
Durante il viaggio, grazie al mirabolante sistema di intrattenimento di Iberia (che differenza rispetto a quindici anni fa, quando avevi a disposizione tre o quattro film da vedere, fortunatamente diversi tra andata e ritorno), riesco finalmente a vedere "Blind Side", tenuto colpevolmente sull'hard disk per anni con la convinzione che tanto "uno di questi giorni lo guardo...". Ecco... se avete l'occasione, guardate la scena finale in lingua originale e poi in italiano: quando Goodell annuncia il draft di Oher la traduzione è a dir poco orrenda.
Atterrati finalmente a Chicago, andiamo allo sportello Budget dove ci attende una fantastica Volkswagen Passat che ci accompagnerà per le strade di Illinois e Wisconsin in tutta tranquillità e sicurezza, avendo un sistema di guida semiautomatica decisamente comodo.
Prima tappa del viaggio: Janesville, una ridente (as usual) cittadina nel bel mezzo del nulla nel Wisconsin, scelta principalmente perchè ci permette di spezzare il trasferimento verso Green Bay in due giorni. Non che la distanza fosse siderale, ma quando arriviamo a Janesville è praticamente ora di cena, e le 19 del Wisconsin corrispondono alle 2 del mattino per noi italiani. Essendoci alzati alle 4 del mattino per andare in aeroporto, risulta in una bella 22 ore in tirata unica. Magari evitare di guidare altre due ore è meglio.
Al mattino dopo, riposati e ristorati, dopo una breve (perché non c'è assolutamente nulla da vedere) visita a Janesville, si parte per la destinazione principale di questo viaggio: Green Bay.
martedì 26 gennaio 2016
Nota di servizio.
Mi hanno segnalato che la paginazione del lunghissimo post di ieri non funzionava correttamente con alcuni browser. Ora ho tolto la paginazione ed aggiunto un più comodo "Continua a leggere", così potete sapere come va a finire la storia :).
Ho anche apportato qualche correzione, soprattutto all'italiano orrendo di certe frasi.
Ho anche apportato qualche correzione, soprattutto all'italiano orrendo di certe frasi.
lunedì 25 gennaio 2016
Una vacanza al tempo del primo internetto
Mettetevi comodi, non sarò breve. Sempre che vi interessi leggere la storia di uno dei viaggi più assurdi e contemporaneamente più indimenticabili della mia vita.
Qualche settimana fa ho terminato di leggere un libro che mi aveva incuriosito molto: “Norman X e Monique Z: la storia segreta di un amore nato nel ciberspazio”.
Evidentemente la mia curiosità nasceva dall’assoluto parallelismo con la mia storia d’amore nata nel ciberspazio, ma proseguendo nella lettura, oltre ad una crescente delusione rispetto alla qualità del libro, ho riscontrato molte più analogie con ciò che mi era successo un anno prima, anche se era un po’ diverso. Va beh… faccio prima a raccontare che a spiegare.
Correva l’anno 1995, e muovevo i primissimi passi on line, utilizzando quella cosa ancora riservata a pochi chiamata Internet. Un modem 14.4, la necessità di scaricarsi la posta (Eudora, qualcuno ha detto Eudora?), disconnettersi, rispondere e poi riconnettersi per mandare la risposta per evitare bollette salate (si pagava a scatti, quindi a consumo) e contemporaneamente per non occupare la linea telefonica per delle ore.
Non ricordo esattamente attraverso quale dei millemila newsgroup che seguivo conobbi Megan, ma ben presto iniziammo a scriverci al di fuori del gruppo, in privato. Parlavamo di noi, delle nostre città, delle nostre vite, di politica, poco di musica (ma riuscii a convincerla ad ascoltare Nick Drake), non di sport. Mi raccontava della sorella che aveva sposato un coglionazzo ed era andata ad abitare ad Albuquerque, 350 km più a nord di Las Cruces, New Mexico, dove abitava lei, oppure di come avesse deciso di andare a vivere da sola, del suo impiego all’università, delle sue aspirazioni, del suo desiderio di vedere l’Europa, forte tanto quanto il mio desiderio di vedere una parte degli Stati Uniti che fino a quel momento non avevo nemmeno mai preso in considerazione.
Qualche settimana fa ho terminato di leggere un libro che mi aveva incuriosito molto: “Norman X e Monique Z: la storia segreta di un amore nato nel ciberspazio”.
Evidentemente la mia curiosità nasceva dall’assoluto parallelismo con la mia storia d’amore nata nel ciberspazio, ma proseguendo nella lettura, oltre ad una crescente delusione rispetto alla qualità del libro, ho riscontrato molte più analogie con ciò che mi era successo un anno prima, anche se era un po’ diverso. Va beh… faccio prima a raccontare che a spiegare.
Correva l’anno 1995, e muovevo i primissimi passi on line, utilizzando quella cosa ancora riservata a pochi chiamata Internet. Un modem 14.4, la necessità di scaricarsi la posta (Eudora, qualcuno ha detto Eudora?), disconnettersi, rispondere e poi riconnettersi per mandare la risposta per evitare bollette salate (si pagava a scatti, quindi a consumo) e contemporaneamente per non occupare la linea telefonica per delle ore.
Non ricordo esattamente attraverso quale dei millemila newsgroup che seguivo conobbi Megan, ma ben presto iniziammo a scriverci al di fuori del gruppo, in privato. Parlavamo di noi, delle nostre città, delle nostre vite, di politica, poco di musica (ma riuscii a convincerla ad ascoltare Nick Drake), non di sport. Mi raccontava della sorella che aveva sposato un coglionazzo ed era andata ad abitare ad Albuquerque, 350 km più a nord di Las Cruces, New Mexico, dove abitava lei, oppure di come avesse deciso di andare a vivere da sola, del suo impiego all’università, delle sue aspirazioni, del suo desiderio di vedere l’Europa, forte tanto quanto il mio desiderio di vedere una parte degli Stati Uniti che fino a quel momento non avevo nemmeno mai preso in considerazione.
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