Domenica 24 Novembre 2019 ho constatato personalmente lo stato di salute del rock in un periodo in cui sembra che la musica si sia ridotta a campionatori, rapper/trapper che hanno con la musica un rapporto piuttosto particolare (ho assistito a due concerti di questi fenomeni ed in entrambi i casi mancavano due componenti fondamentali sul palco: musicisti e strumenti musicali).
Sono andato all'Alcatraz di Milano a sentire i Greta Van Fleet, un gruppo di giovani (MOLTO giovani) americani che usano ancora le chitarre, il basso, la batteria ed un muro di Marshall che faceva ben sperare alla sua sola vista.
Li ascoltavo già da un po', grazie al suggerimento del mio amico Derrick (a proposito, segnatevi questo nome: The Glorious Sons, altro suo suggerimento che vale la pena di ascoltare), per cui non sono arrivato a Milano impreparato, ma piuttosto curioso di vedere se dal vivo confermavano le ottime impressioni avute all'ascolto degli album in studio.
Partiamo dalla fine: il rock è vivo. Sul vegeto nutro ancora dei dubbi perchè i Greta Van Fleet sono un'eccezione nel panorama musicale moderno, ma la presenza di tanti giovani oltre alla folta schiera di V.D.M. come me, mi fa ben sperare che non tutta la nuova generazione si lasci lobotomizzare ed omologare dalla spazzatura che ci viene propinata in tutte le salse.
Il concerto in sè mi è piaciuto, ho trovato un'energia ed una carica non comuni, ed i fratelli Kiszka tengono bene il palco. Molto bravo il batterista, anche se non mi è piaciuto granchè il suono della batteria. Sarà anche l'acustica dell'Alcatraz che non mi è sembrata impeccabile.
Apparentemente straordinario Jake Kiszka, il chitarrista, che si produce in un'emulazione di Hendrix suonando con la chitarra dietro la schiena, ma molto scolastico negli assoli e poco creativo.Straordinario, invece, Josh Kiszka, che ha dei cambi di tonalità pazzeschi, tira la voce portandola ad acuti straordinari senza usare il falsetto e non si risparmia un attimo sul palco. La mise è un chiaro omaggio al Robert Plant d'annata (mancano gli zatteroni, ma il resto c'è tutto), e qui arriviamo al dunque.
I GVF si sono pubblicamente lamentati del fatto che la critica continua ad etichettarli come un clone dei Led Zeppelin. Ad un primo ascolto, infatti, ci si chiede se non si tratti proprio di loro: sonorità, assoli, voce particolare, pezzi tirati all'inverosimile, tutto fa pensare per lo meno ad una tribute band. I GVF sono di più, come si può ascoltare nell'ultimo album in studio, ma se dal vivo si continua a scimmiottare i grandi anni '70, a tirare i pezzi fino a 20 minuti con grandi sezioni di assoli e jam session, inondando di musica una platea apparentemente estasiata riportandola indietro di 40 anni, non ci si deve poi lamentare troppo.
L'impressione è che la band sia ancora alla ricerca della propria identità definitiva, e nel mentre cerchi di cavalcare l'onda di entusiasmo prodotta proprio da questa emulazione dei '70 che ha avuto una gran presa su pubblico e critica.
La grossa differenza con i '70 la fa però la durata dell'esibizione. Dopo un'ora e dieci Josh saluta tutti al termine di un sintomatico "When the curtain falls", il decimo pezzo della serata (comprensivo della cover di "The music is you" di John Denver della durata di un minuto scarso).
Ma dico, vuoi fare la rockstar anni '70 e fai un concerto di un'ora e dieci minuti? Ma davvero? Ma sei serio? Come ha detto il mio amico Mario, con cui ho condiviso il concerto, "adesso arriva nonno Bruce e gli dice di tornare fuori. Persino Alice Cooper, a settant'anni suonati, ha fatto più di due ore".
Va bene il repertorio non gigantesco, ma qualcosa in più la potevano fare.
Dopo dieci minuti di "chiama" da parte del pubblico, si ripresentano sul palco e regalano ancora due perle, "Flower Power" e soprattutto "Safari Song" che mi chiedevo che fine avesse fatto. Alla fine di questi due pezzi, in cui viene incastrato un magistrale assolo di batteria, saluti e tutti a casa con un po' di amaro in bocca.
Si, bello, bravi tutti, le sonorità... ma DODICI pezzi per un concerto?!? Ci rivedremo tra qualche anno, e con un repertorio maggiore esigerò le due ore canoniche al di sotto delle quali non puoi definirti un rocker.