E' inutile girarci intorno. La prima delle innumerevoli considerazioni che si possono fare al termine di un viaggio simile è: "come si guarisce"?
Dopo essersi alzati all'alba per godersi lo spettacolo del sole che sorge al Bryce Canyon, dopo aver visto comparire il Delicate Arch al termine di un'impegnativa "passeggiata" sulle rocce, dopo essersi immersi nel bianchissimo deserto di gesso, come si fa ad alzarsi alle 6:20 al suono della sveglia, andare alla fermata dell'autobus e tornare a lavorare senza provare un minimo di nostalgia?
Solitamente tutto questo è indice di una splendida vacanza, ed il problema di trovarsi troppo bene è il duro richiamo alla realtà che avviene al nostro ritorno.
Le fotografie aiutano, i racconti pure, ed anche mettere nero su bianco le proprie impressioni, ma la cura è lenta e non dà garanzia di successo.
Prendi la macchina ed immediatamente rimpiangi quanto era bello guidare negli USA, dove se metti la freccia per cambiare corsia (qualsiasi sia il motivo) quello che sta dietro non accelera in maniera da facilitarti la manovra, dove nessuno è in competizione con gli altri guidatori sulla strada come invece sembra che sia nel nostro paese, dove le strade dritte saranno sì a rischio abbiocco, ma sono tenute benissimo e a volte sembra di viaggiare sul velluto.
In un paese dove la competizione è alla base di qualsiasi aspetto della vita, almeno sulla strada on si gareggia in un fantomatico gran premio per arrivare tre metri prima del tuo vicino di corsia, ed i viaggi diventano anche più rilassanti.
Viaggiando in macchina e vedendo la quantità stratosferica di pickup per le strade, mostri con motori di 5-6mila di cilindrata che consumano litri e litri di benzina, a volte viene da pensare che in America vendano solo quelli. E se nei posti più rurali il pickup ha un suo perchè, la domanda sulla sua utilità sorge spontanea nelle grandi città, esattamente come qui da noi, dove ti chiedi l'impiegato che fa solo casa-ufficio-casa, o la mamma che deve portare i figli a scuola e basta, che necessità abbiano di comprarsi SUV giganteschi che poi sono costretti a parcheggiare in qualsiasi posizione possibile tranne quella corretta a bordo strada.
I problemi di parcheggio negli USA non si pongono quasi mai. Nelle grandi città è pieno di parcheggi a silos, ovviamente a pagamento (anzi, a volte a STRA-pagamento, come quello che voleva 15 dollari ogni 15 minuti a Santa Monica), ma nei centri più piccoli lo spazio non è mai un problema.
Lo spazio, già.
Nella parte d'America che abbiamo visitato, il sudovest, lo spazio è l'ultimissimo dei problemi se non per il fatto che è talmente ampio che le distanza sono enormi. E nonostante le distanze siano enormi (o forse proprio per quello), la densità abitativa è ridicolmente bassa. Lasciamo perdere Los Angeles che ormai è un grande agglomerato di comuni, un po' come qui, fatte le debite proporzioni, dove per andare da Torino a Rivoli non ti rendi conto di passare comuni diversi e, se non ci fossero i cartelli, ti sembra di essere sempre nella stessa città. Abbiamo guidato per miglia e miglia senza incontrare segni di vita umana. Le distanze tra un centro abitato ed un altro in Arizona, Utah e New Mexico sono abissali, spesso raggiungono i 100 km, e spesso ci si chiede come facciano a vivere i loro abitanti. Banalmente, senza un negozio di abbigliamento in città (ed è capitato di passarne diverse di cittadine simili), esattamente dove si comprano i vestiti?
Abbiamo passato due giorni ad Hatch, un cosiddetto buco di culo del mondo nello Utah, ed anche i semplici negozi di alimentari erano a decine di chilometri di distanza. Ed esattamente, gli abitanti di Hatch come si guadagnano da vivere? Va bene chi gestisce il benzinaio, i due o tre alberghi ed il ristorante, ma gli altri? Non ci sono negozi, non ci sono aziende, ci sono un paio di ranch e stop. L'economia del paesino, su cosa si basa? Mistero. E così anche per centri più grandi come kayenta, ad esempio, dove apparentemente ci sono solo abitazioni, un piccolo centro commerciale con supermercato e quattro negozi, e le scuole. Nessuna traccia di altre attività.
Oltre allo spazio, da queste parti abbonda un'altra cosa: il cielo.
E' davvero incredibile quanto cielo ci sia. Non siamo abituati, semplicemente.
Sembra quasi che l'orizzonte sia più basso, dalla quantità di cielo che si vede, ma è solo un effetto ottico dato dalla grande distanza di eventuali rilievi montuosi. Per tre quarti del viaggio siamo stati sui 2mila metri di quota, sul grandissimo Colorado Plateau che domina la regione, ed essendo così in alto anche le montagne all'orizzonte sembrano ovviamente più basse, il tutto in favore della quantità di cielo visibile.
Difficile fare una classifica su cosa è piaciuto di più e cosa è piaciuto di meno, ma possiamo comunque provarci.
In ordine sparso, tra le note positive annoveriamo l'alba a Bryce, l'emozione nell'affacciarsi al Grand Canyon, White Sands, la visione del Delicate Arch dopo la scarpinata per raggiungerlo, il ritorno a Las Cruces e, in generale, le vedute mozzafiato ed i paesaggi meravigliosi che abbiamo visto.
Le note negative, a parte le code di Los Angeles, direi praticamente nulla. Persino la sveglia alle quattro a Yuma data dall'allarme antincendio non è riuscita a scalfire la nostra soddisfazione per questo viaggio, che resterà una pietra miliare della nostra famiglia.
Fino al prossimo...
Il masso su per la montagna dobbiamo spingerlo comunque. Facciamolo almeno col sorriso sulle labbra.
sabato 1 settembre 2018
venerdì 31 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/10 - San Diego
Erano diversi anni che volevo vedere San Diego, della quale tutti mi dicevano un gran bene. Tre giorni (in realtà due) non sono molti per vedere una città così grande, considerando anche che dovevamo "dedicare" almeno una mezza giornata al solito giro da Dick's Sporting Good alla frenetica quanto vana ricerca di un paio di guanti Adidas Freak 3.0 XXL. Sappiate che in tutti i Dick's del Sudovest dove siamo stati, non li hanno di quella taglia. Rassegnatevi.
Alla fine decidiamo di focalizzarci su pochi obiettivi per poter vedere qualcosa in tranquillità. Meglio poco e bene che tanto e di corsa.
La prima destinazione è il Gaslamp District, un quartiere della vecchia San Diego così chiamato per via delle lampade a gas dell'illuminazione pubblica di cui restano i lampioni, ora alimentati a corrente elettrica. E' il classico centro città turistico, dove si ammassano locali per mangiare e bere (e probabilmente ballare ed anche altro, più tardi con il calar delle tenebre). Bellino, caratteristico, ci si fa un giro, ma alla fine ti lascia ben poco. Si, su qualche palazzo c'è una targhetta piccolissima che ricorda che in quel luogo nel milleottocentovattelappesca è nata questa o quella cosa/industria/negozio/ristorante/quelchevolete, ma è ormai diventato quello che da noi si chiamerebbe "il quartiere della movida", bello se hai l'età giusta, altrimenti poco interessante.
Decisamente più interessante la visita al museo dell'aviazione ospitato sulla portaerei USS Midway.
Le portaerei cono piccole città per definizione. Navi immense, che devono ospitare diverse decine di aerei ed avere una pista per decollo e atterraggio.
La particolarità, più che positiva, consiste nel fatto che a far da guida e cicerone ci sono dei veterani in pensione che su quella nave ci sono stati, come marinai o come piloti. E allora chi ti spiega il funzionamento della catapulta per far decollare gli aerei è uno che quella catapulta l'ha usata sul serio, così come chi ti spiega come funziona il gancio freno per gli atterraggi è uno che di atterraggi col gancio ne ha fatti centinaia. Dalle parole traspare tutto l'orgoglio e la passione per ciò che hanno fatto, come praticamente sempre quando si tratta di veterani, ed il pubblico ha generalmente molto rispetto e gratitudine verso questi uomini.
Interessante anche il giro sul ponte di comando, dove ti accorgi di quanti passi avanti ha fatto la tecnologia, ma anche la tecnica di costruzione navale, che oggi prevede postazioni più comode e spaziose per i comandanti ed i suoi collaboratori.
Terza tappa La Jolla, un sobborgo di San Diego, come lo chiameremmo noi. La Jolla è famosa per le sue spiagge dove vanno a riposarsi le foche e sulle quali volano indisturbati gabbiani e pellicani. E' l'occasione per un ultimo sguardo "naturalistico", anche se vedendo la gente che si ammassa intorno alle foche, gli tira la sabbia, cerca di farle giocare, scappando a gambe levate quando queste iniziano ad essere minacciose, viene davvero da affibbiare la didascalia che Riccardo ha ideato per una foto: "Un gruppo di animali; di fianco, delle foche".
Per finire ci dirigiamo sull'isola di Coronado dove, che sta a San Diego un po' come Sausalito sta a San Francisco. Borgo per gli americani benestanti o per gli artisti, caratteristico ed interessante.
Sulla prima parte posso concordare. La sola vista dell'Hotel del Coronado, una bellissima costruzione, fa capire che qui grana ne gira decisamente (per una notte siamo a 370 dollari se non si vuole la vista oceano, altrimenti si arriva anche a 600 e si superano i 1000 per le suite). Per il resto vale un po' il discorso fatto per Gaslamp. Forse una volta poteva essere una località esclusiva e particolare, ma oggi è solo l'ennesimo posto per turisti con una serie di negozi e negozietti tutti uguali, con prezzi inavvicinabili.
Il mattino dopo riprendiamo la nostra Kia, ci dirigiamo verso l'aeroporto di Los Angeles e riconsegniamo la vettura dopo 3781 miglia (6084 chilometri), cinque stati e nove parchi nazionali. L'A380 che ci riporterà a casa via Monaco ci aspetta... cala il sipario.
Alla fine decidiamo di focalizzarci su pochi obiettivi per poter vedere qualcosa in tranquillità. Meglio poco e bene che tanto e di corsa.
La prima destinazione è il Gaslamp District, un quartiere della vecchia San Diego così chiamato per via delle lampade a gas dell'illuminazione pubblica di cui restano i lampioni, ora alimentati a corrente elettrica. E' il classico centro città turistico, dove si ammassano locali per mangiare e bere (e probabilmente ballare ed anche altro, più tardi con il calar delle tenebre). Bellino, caratteristico, ci si fa un giro, ma alla fine ti lascia ben poco. Si, su qualche palazzo c'è una targhetta piccolissima che ricorda che in quel luogo nel milleottocentovattelappesca è nata questa o quella cosa/industria/negozio/ristorante/quelchevolete, ma è ormai diventato quello che da noi si chiamerebbe "il quartiere della movida", bello se hai l'età giusta, altrimenti poco interessante.
Decisamente più interessante la visita al museo dell'aviazione ospitato sulla portaerei USS Midway.
Le portaerei cono piccole città per definizione. Navi immense, che devono ospitare diverse decine di aerei ed avere una pista per decollo e atterraggio.
La particolarità, più che positiva, consiste nel fatto che a far da guida e cicerone ci sono dei veterani in pensione che su quella nave ci sono stati, come marinai o come piloti. E allora chi ti spiega il funzionamento della catapulta per far decollare gli aerei è uno che quella catapulta l'ha usata sul serio, così come chi ti spiega come funziona il gancio freno per gli atterraggi è uno che di atterraggi col gancio ne ha fatti centinaia. Dalle parole traspare tutto l'orgoglio e la passione per ciò che hanno fatto, come praticamente sempre quando si tratta di veterani, ed il pubblico ha generalmente molto rispetto e gratitudine verso questi uomini.
Interessante anche il giro sul ponte di comando, dove ti accorgi di quanti passi avanti ha fatto la tecnologia, ma anche la tecnica di costruzione navale, che oggi prevede postazioni più comode e spaziose per i comandanti ed i suoi collaboratori.
Terza tappa La Jolla, un sobborgo di San Diego, come lo chiameremmo noi. La Jolla è famosa per le sue spiagge dove vanno a riposarsi le foche e sulle quali volano indisturbati gabbiani e pellicani. E' l'occasione per un ultimo sguardo "naturalistico", anche se vedendo la gente che si ammassa intorno alle foche, gli tira la sabbia, cerca di farle giocare, scappando a gambe levate quando queste iniziano ad essere minacciose, viene davvero da affibbiare la didascalia che Riccardo ha ideato per una foto: "Un gruppo di animali; di fianco, delle foche".
Per finire ci dirigiamo sull'isola di Coronado dove, che sta a San Diego un po' come Sausalito sta a San Francisco. Borgo per gli americani benestanti o per gli artisti, caratteristico ed interessante.
Sulla prima parte posso concordare. La sola vista dell'Hotel del Coronado, una bellissima costruzione, fa capire che qui grana ne gira decisamente (per una notte siamo a 370 dollari se non si vuole la vista oceano, altrimenti si arriva anche a 600 e si superano i 1000 per le suite). Per il resto vale un po' il discorso fatto per Gaslamp. Forse una volta poteva essere una località esclusiva e particolare, ma oggi è solo l'ennesimo posto per turisti con una serie di negozi e negozietti tutti uguali, con prezzi inavvicinabili.
Il mattino dopo riprendiamo la nostra Kia, ci dirigiamo verso l'aeroporto di Los Angeles e riconsegniamo la vettura dopo 3781 miglia (6084 chilometri), cinque stati e nove parchi nazionali. L'A380 che ci riporterà a casa via Monaco ci aspetta... cala il sipario.
giovedì 30 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/9 - Tucson e Yuma
Las Cruces era l'ultima vera tappa del nostro viaggio. Ora si tratta di rientrare a San Diego per fare tre giorni in relax prima di ripartire, e decidiamo di suddividere in tre parti i 1150 chilometri che separano le due città. La prima tappa di trasferimento è Tucson, Arizona. La località non è scelta a caso, perchè a Tucson si è trasferita la Fufi, un'amica nonchè chef e maestra di cucina di Monica, ed ha rilevato incentro città il Caffè Milano, un ristorante italiano che punta ad essere più italiano della media dei ristoranti tricolori presenti in America.
Il grosso problema (e mistero) è che gli Americani vengono qui in Italia, mangiano le prelibatezze della cucina italiane cucinate all'italiana e poi tornano a casa decantando i piatti assaggiati ma esigendone un'americanizzazione totale.
Esempio: l'americano che mangia una squisita carbonara a Roma, torna a Wadafuck, il suo paesello natio, racconta a tutti della buona carbonara mangiata in Italia e poi va al ristorante italiano e se non gliela servono con il brodino con la panna la schifa e non la mangia.
Cos'è, alla frontiera ti resettano il chip e non ti ricordi che nella carbonara mangiata a Roma non c'era ombra di brodino? Del resto se si chiama pastasciutta ci sarà un motivo, no? Se no si chiamerebbe pasta in brodo. O no?
Per non parlare dei vini. Alfredo, il marito della Fufi, sommelier esperto, dice che ha dovuto imparare a non ridere in faccia ai clienti che con la lasagna chiedono il moscato. Quando capita la risposta è "Scelta azzeccatissima", e giù di bestemmioni sottovoce.
L'incontro con la Fufi nel suo bellissimo ristorante è l'occasione di un bel "reality check" sugli Stati Uniti.
Noi italiani abbiamo spesso il sogno dell'America, ma ogni volta che mi reco in loco, oltre ad apprezzare tante cose e rimanere scettico su altre, come logico, mi trovo spesso a pensare che sì, probabilmente mi adatterei bene allo stile di vita, ma l'incognita è rappresentata dalla vita di tutti i giorni, dai problemi comuni, l'idraulico, il dottore, la scuola, insomma, tutte quelle cose che uno dà per scontate perchè non ci pensa.
Innanzitutto capiamo subito che un eventuale trasferimento negli USA necessità di essere pianificato e programmato per bene a partire dalla richiesta dei visti. Esistono una miriade di visti differenti., e a seconda di quello che richiedi la tua vita negli USA può essere semplice o estremamente complicata. Quindi punto primo: informarsi alla perfezione su cosa serve. Questo perchè se sbagli il tipo di visto, come è capitato a loro, ne porti le conseguenze per sempre. Una "piccolezza" su tutte? Alcuni visti hanno come condizione che tu non potrai mai, in nessun caso, richiedere la cosiddetta green card, per cui sarai sempre un ospite straniero, con tutte le conseguenze del caso, dalle più lievi come il dover lasciare gli USA per almeno un paio di giorni ogni due anni per poi rientrare e rinnovare il visto alle più pesanti come il divieto di accesso alle facilitazioni quali borse di studio, prestiti agevolati e addirittura tipi di corsi universitari.
Inoltre qui siamo abituati alla sanità gratuita o quasi. Non parliamo dei difetti e dei pregi dei due sistemi o della qualità del servizio. parliamo proprio della forma mentis per cui se ho, per esempio, l'appendicite, vado all'ospedale e mi operano (ripeto, tralasciamo tutti i discorsi relativi a tempi, qualità, posti letto e simili). In USA no. Se non hai un'assicurazione (e tanti non ce l'hanno), l'operazione può costarti qualche decina di migliaia di dollari, dove "qualche" arriva facilmente a 80, 90 ed anche di più per patologie più complesse.
Insomma, non è tutto rose e fiori e no, non è vero che "basta l'assicurazione sanitaria", perchè devi mettere in conto sia la franchigia che ogni assicurazione ha, sia il fatto che una buona assicurazione sanitaria per uno straniero può ostare anche più di 1000 dollari al mese.
Quando usciamo dal ristorante non abbiamo più tutte le certezze che avevamo prima di entrare su un eventuale trasferimento in USA. Bisogna, comunque, verificare anche come cambia lo scenario se ci si procura i visti adeguati, ma un bel richiamo alla realtà non fa mai male.
Lasciamo Tucson per Yuma, l'ultima città dell'Arizona prima di entrare in California, famosissima per i treni (che sia "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma" oppure "Quel treno per Yuma").
Un caldo micidiale, quasi pari a quello di Needles ci accoglie in questo agglomerato di case in mezzo al deserto. Breve giro nel circondario e poi in albergo a riposarci, senonchè, alle 4 del mattino, si mette a suonare l'allarme antincendio. E che palle...
Mezzi rincoglioniti dal sonno e dalla fastidiosissima sirena ci vestiamo e ci avviamo all'uscita di sicurezza. Dal terzo piano scendiamo nel pazzale del parcheggio antistante l'albergo e... non c'è nessuno. Ci vorranno cinque minuti buoni prima che inizino ad arrivare gli altri clienti dell'albergo (alcuni hanno addirittura fatto le valigie e se le sono portate dietro, esattamente come recitano tutti i protocolli di sicurezza...), ma soprattutto non si vede nessuno dell'albergo. I pompieri arrivano i nun quarto d'ora, e solo in quel momento si vede la portiera di notte che li accoglie e li fa entrare.
Nessun incendio. Si tratta di un blackout generalizzato che ha colpito mezza città, ma solo al nostro albergo è scattato l'allarme, probabilmente per un malfunzionamento dei generatori di emergenza.
Vabbè, niente di che, se non fosse che si dorme per il resto (poco) della notte senza aria condizionata (e faceva caldo pure di notte).
Via da Yuma, ci aspetta San Diego.
Il grosso problema (e mistero) è che gli Americani vengono qui in Italia, mangiano le prelibatezze della cucina italiane cucinate all'italiana e poi tornano a casa decantando i piatti assaggiati ma esigendone un'americanizzazione totale.
Esempio: l'americano che mangia una squisita carbonara a Roma, torna a Wadafuck, il suo paesello natio, racconta a tutti della buona carbonara mangiata in Italia e poi va al ristorante italiano e se non gliela servono con il brodino con la panna la schifa e non la mangia.
Cos'è, alla frontiera ti resettano il chip e non ti ricordi che nella carbonara mangiata a Roma non c'era ombra di brodino? Del resto se si chiama pastasciutta ci sarà un motivo, no? Se no si chiamerebbe pasta in brodo. O no?
Per non parlare dei vini. Alfredo, il marito della Fufi, sommelier esperto, dice che ha dovuto imparare a non ridere in faccia ai clienti che con la lasagna chiedono il moscato. Quando capita la risposta è "Scelta azzeccatissima", e giù di bestemmioni sottovoce.
L'incontro con la Fufi nel suo bellissimo ristorante è l'occasione di un bel "reality check" sugli Stati Uniti.
Noi italiani abbiamo spesso il sogno dell'America, ma ogni volta che mi reco in loco, oltre ad apprezzare tante cose e rimanere scettico su altre, come logico, mi trovo spesso a pensare che sì, probabilmente mi adatterei bene allo stile di vita, ma l'incognita è rappresentata dalla vita di tutti i giorni, dai problemi comuni, l'idraulico, il dottore, la scuola, insomma, tutte quelle cose che uno dà per scontate perchè non ci pensa.
Innanzitutto capiamo subito che un eventuale trasferimento negli USA necessità di essere pianificato e programmato per bene a partire dalla richiesta dei visti. Esistono una miriade di visti differenti., e a seconda di quello che richiedi la tua vita negli USA può essere semplice o estremamente complicata. Quindi punto primo: informarsi alla perfezione su cosa serve. Questo perchè se sbagli il tipo di visto, come è capitato a loro, ne porti le conseguenze per sempre. Una "piccolezza" su tutte? Alcuni visti hanno come condizione che tu non potrai mai, in nessun caso, richiedere la cosiddetta green card, per cui sarai sempre un ospite straniero, con tutte le conseguenze del caso, dalle più lievi come il dover lasciare gli USA per almeno un paio di giorni ogni due anni per poi rientrare e rinnovare il visto alle più pesanti come il divieto di accesso alle facilitazioni quali borse di studio, prestiti agevolati e addirittura tipi di corsi universitari.
Inoltre qui siamo abituati alla sanità gratuita o quasi. Non parliamo dei difetti e dei pregi dei due sistemi o della qualità del servizio. parliamo proprio della forma mentis per cui se ho, per esempio, l'appendicite, vado all'ospedale e mi operano (ripeto, tralasciamo tutti i discorsi relativi a tempi, qualità, posti letto e simili). In USA no. Se non hai un'assicurazione (e tanti non ce l'hanno), l'operazione può costarti qualche decina di migliaia di dollari, dove "qualche" arriva facilmente a 80, 90 ed anche di più per patologie più complesse.
Insomma, non è tutto rose e fiori e no, non è vero che "basta l'assicurazione sanitaria", perchè devi mettere in conto sia la franchigia che ogni assicurazione ha, sia il fatto che una buona assicurazione sanitaria per uno straniero può ostare anche più di 1000 dollari al mese.
Quando usciamo dal ristorante non abbiamo più tutte le certezze che avevamo prima di entrare su un eventuale trasferimento in USA. Bisogna, comunque, verificare anche come cambia lo scenario se ci si procura i visti adeguati, ma un bel richiamo alla realtà non fa mai male.
Lasciamo Tucson per Yuma, l'ultima città dell'Arizona prima di entrare in California, famosissima per i treni (che sia "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma", "Quel treno per Yuma" oppure "Quel treno per Yuma").
Un caldo micidiale, quasi pari a quello di Needles ci accoglie in questo agglomerato di case in mezzo al deserto. Breve giro nel circondario e poi in albergo a riposarci, senonchè, alle 4 del mattino, si mette a suonare l'allarme antincendio. E che palle...
Mezzi rincoglioniti dal sonno e dalla fastidiosissima sirena ci vestiamo e ci avviamo all'uscita di sicurezza. Dal terzo piano scendiamo nel pazzale del parcheggio antistante l'albergo e... non c'è nessuno. Ci vorranno cinque minuti buoni prima che inizino ad arrivare gli altri clienti dell'albergo (alcuni hanno addirittura fatto le valigie e se le sono portate dietro, esattamente come recitano tutti i protocolli di sicurezza...), ma soprattutto non si vede nessuno dell'albergo. I pompieri arrivano i nun quarto d'ora, e solo in quel momento si vede la portiera di notte che li accoglie e li fa entrare.
Nessun incendio. Si tratta di un blackout generalizzato che ha colpito mezza città, ma solo al nostro albergo è scattato l'allarme, probabilmente per un malfunzionamento dei generatori di emergenza.
Vabbè, niente di che, se non fosse che si dorme per il resto (poco) della notte senza aria condizionata (e faceva caldo pure di notte).
Via da Yuma, ci aspetta San Diego.
mercoledì 29 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/8 - Very Large Array e White Sands
E' l'ora del mio ritorno in New Mexico dopo 21 anni, una parte d'America che mi è rimasta nel cuore dopo il mio primo approccio del 1996 (nonostante tutto...). Il primo impatto è con Albuquerque, la città più grossa dello stato, dove facciamo tappa per spezzare in due un viaggio che, altrimenti, sarebbe stato di circa 800 Km. Un po' troppi da fare in tirata unica, ma soprattutto non avremmo avuto il tempo di fare una capatina in uno dei posti che volevo assolutamente rivedere e far vedere a moglie e figlio: il Very Large Array.
Prima, però, Albuquerque, come detto. In realtà non abbiamo visitato la città, limitandoci ad andare a vedere la casa di Walter White (protagonista della serie TV Breaking Bad) ed a cercare una particolarità simpatica: la Singing Road.
Negli Stati Uniti è prassi comune, sulle strade, praticare delle piccole fessure sull'asfalto in corrispondenza del margine della carreggiata, in maniera da dare un avvertimento sonoro, passandoci sopra con il pneumatico, nel caso in cui un guidatore distratto perdesse la retta via. Non è una particolarità solo americana, anche noi ce l'abbiamo su alcune autostrade, ma come sempre gli americani vanno sempre un po' più in là.
Prima, però, Albuquerque, come detto. In realtà non abbiamo visitato la città, limitandoci ad andare a vedere la casa di Walter White (protagonista della serie TV Breaking Bad) ed a cercare una particolarità simpatica: la Singing Road.
Negli Stati Uniti è prassi comune, sulle strade, praticare delle piccole fessure sull'asfalto in corrispondenza del margine della carreggiata, in maniera da dare un avvertimento sonoro, passandoci sopra con il pneumatico, nel caso in cui un guidatore distratto perdesse la retta via. Non è una particolarità solo americana, anche noi ce l'abbiamo su alcune autostrade, ma come sempre gli americani vanno sempre un po' più in là.
martedì 28 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/7 - Mesa Verde
Abbiamo scollinato la vetta di metà viaggio e, da qui alla fine, ci attendono solo più due parchi. Il primo dei due è Mesa Verde, in Colorado.
Come dice il suo nome, il parco è situato su un altipiano (Mesa) a circa 2200 metri di altezza, attraversato da diverse vallate nelle quali la vegetazione è fitta e rigogliosa (da cui il nome "Verde"). Insomma, potremmo definirlo una specie di "canyon con gli alberi", senonchè alla base delle vallate non c'è un fiume che le ha create mediante erosione.
La particolarità di Mesa Vede, però, non sano i canyon, ma i cosiddetti "cliff dwellings", cioè delle rientranze naturali della roccia dove gli antichi popoli indigeni, gli Anasazi, costruirono i propri insediamenti.
Come dice il suo nome, il parco è situato su un altipiano (Mesa) a circa 2200 metri di altezza, attraversato da diverse vallate nelle quali la vegetazione è fitta e rigogliosa (da cui il nome "Verde"). Insomma, potremmo definirlo una specie di "canyon con gli alberi", senonchè alla base delle vallate non c'è un fiume che le ha create mediante erosione.
La particolarità di Mesa Vede, però, non sano i canyon, ma i cosiddetti "cliff dwellings", cioè delle rientranze naturali della roccia dove gli antichi popoli indigeni, gli Anasazi, costruirono i propri insediamenti.
lunedì 27 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/6 - Arches e Canyonland
Per andare da Kayenta a Moab avevamo due scelte: passare da Four Corners o da Mexican Hat. La prima opzione poteva comportare una piccola deviazione per andare nell'unico posto degli Stati Uniti dove si incontrano quattro stati e dove è stato piazzato un blocco di pietra dove questo incrocio è segnato da una croce, ed i visitatori si divertono a mettere mani e piedi nei quattro differenti stati contemporaneamente, rendendo quindi reale il dono dell'ubiquità, poichè in questa maniera una parte del corpo è contemporaneamente in Arizona, Utah, Colorado e New Mexico.
Avendo già fatto questa esperienza precedentemente e non avendola trovata particolarmente degna di nota, decidiamo di passare da Mexican Hat, approfittando di tre vantaggi contemporaneamente: la strada è più corta, passata la Monument Valley si arriva in un punto particolarmente panoramico di cui dirò tra poco, e si passa da Mexican Hat, dove una formazione rocciosa particolare dall'aspetto di un messicano con il sombrero dà il nome alla località che la ospita.
Percorrendo la US 163 che costeggia la Monument Valley, dopo averla superata ci si immette in un lunghissimo rettilineo di diverse miglia, leggermente in salita, alla sommità del quale è possibile avere un'altra di quelle vedute panoramiche viste e riviste in tutto il mondo, essendo uno dei punti più fotografati del pianeta. Questa immagine viene spesso usata per simboleggiare "l'America on the road", cioè un lungo rettilineo che scompare all'orizzonte, dove si stagliano le classiche formazioni rocciose dell'Arizona, con montagne larghe dalla cima piatta con dei sottili comignoli a fianco. Tra l'altro è il punto in cui è stata girata una famosa scena del film Forrest Gump, ed in corrispondenza di questo punto c'è addirittura un'area di sosta per permettere alle auto di fermarsi in tutta sicurezza ed alle persone di piazzarsi in mezzo alla strada per fare la foto.
Avendo già fatto questa esperienza precedentemente e non avendola trovata particolarmente degna di nota, decidiamo di passare da Mexican Hat, approfittando di tre vantaggi contemporaneamente: la strada è più corta, passata la Monument Valley si arriva in un punto particolarmente panoramico di cui dirò tra poco, e si passa da Mexican Hat, dove una formazione rocciosa particolare dall'aspetto di un messicano con il sombrero dà il nome alla località che la ospita.
Percorrendo la US 163 che costeggia la Monument Valley, dopo averla superata ci si immette in un lunghissimo rettilineo di diverse miglia, leggermente in salita, alla sommità del quale è possibile avere un'altra di quelle vedute panoramiche viste e riviste in tutto il mondo, essendo uno dei punti più fotografati del pianeta. Questa immagine viene spesso usata per simboleggiare "l'America on the road", cioè un lungo rettilineo che scompare all'orizzonte, dove si stagliano le classiche formazioni rocciose dell'Arizona, con montagne larghe dalla cima piatta con dei sottili comignoli a fianco. Tra l'altro è il punto in cui è stata girata una famosa scena del film Forrest Gump, ed in corrispondenza di questo punto c'è addirittura un'area di sosta per permettere alle auto di fermarsi in tutta sicurezza ed alle persone di piazzarsi in mezzo alla strada per fare la foto.
venerdì 24 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/5 - Monument Valley
La strada si snoda tra deserti e rocce rosse tipiche della zona, e le soste per fotografare gli scorci interessanti sono molte. Facciamo anche una sosta ad uno degli innumerevoli baracchini a bordo strada nei quali i Navajos vendono i loro tipici manufatti. Ci sono cose davvero splendide: collane e braccialetti fatti principalmente con turchesi ma anche una miriade di altre pietre e minerali lavorati: ci sarebbe da fare una razzia completa di tutte le cose esposte, per non essere costretti a scegliere una cosa piuttosto che un'altra.
Nei miei ricordi ultraventennali Kayenta era un posto sperduto con tre case ed un benzinaio (un po' come Hatch, insomma), ma oggi le cose sono decisamente cambiate.
Magari i miei ricordi erano un po' sbiaditi, ma le dimensioni della città sono notevolmente aumentate, e tutto intorno all'incrocio con la strada per la Monument Valley che ricordavo piuttosto deserto, sono spuntate case, supermercati, alberghi ed altri benzinai. E' un po' il preludio a quanto mi attende alla Valley.
Come per gli altri parchi, la Monument Valley non la vedi dalla strada, arrivando da Kayenta, a differenza di quanto accade arrivando da nord, da Mexican Hat. Si vede la cima di una delle muffole spuntare dall'orizzonte, ma il resto è scoperto da una formazione montuosa che fa quasi da schermo, perciò la visione completa la si ha solo una volta arrivati al parcheggio del visitor's center. Scesi dall'auto, ci si staglia davanti un paesaggio familiare, visto in mille e mille film western. Le due muffole e la Merrick Butte a formare il classico trio di rocce che compongono il panorama della Monument Valley nell'immaginario comune.
giovedì 23 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/4 - Antelope Canyon
Lasciamo Hatch per dirigerci nuovamente verso Page per quello che, almeno personalmente, dovrebbe rappresentare il momento culminante dell'intero viaggio: la visita all'Antelope Canyon.
Prima, però, è necessario cercare di fare chiarezza su una cosa importante: il fuso orario.
Passando da Los Angeles ad Hatch abbiamo perso un'ora di fuso. La California è infatti nove ore indietro rispetto all'Italia (Pacific Time o PT), mentre lo Utah è ad otto ore (Mountain Time o MT). Dovrebbe esserlo anche l'Arizona, che adotta il Mountain Time, ma l'Arizona ha la particolarità di non adottare l'ora legale, il che significa che per tutto il periodo dell'ora legale Arizona e California hanno la stessa ora, mentre quando l'ora legale non è in vigore sono Arizona e Utah ad avere la stessa ora. Beh, che problema c'è? Nessuno. Senonchè una buona parte del territorio dell'Arizona si trova nella cosiddetta Navajo Nation (Naabeehó Bináhásdzo), una sorta di stato nello stato che copre un vasto territorio tra Utah, Arizona e New Mexico ed è forse la più grande riserva indiana d'America.
Bene, la Navajo Nation adotta l'ora legale, per cui ci troviamo nella singolare situazione che in Arizona, a seconda di dove ti trovi, può essere un'ora oppure un'altra.
Ma non è finita qui. A complicare ulteriormente le cose ci si mette Page che, pur essendo in territorio Navajo, ha deciso di non adottare l'ora legale. Quindi per sapere che ora è quando si è in Arizona bisogna capire se l'ora legale è in vigore o meno e, in caso positivo, se ci si trova o meno in territorio Navajo e, in caso positivo, se ci si trova a page e dintorni. Semplice, no?
E' per questo che partiamo da Hatch con largo anticipo per percorrere le due ore di strada che ci separano dall'Antelope Canyon, dove dobbiamo essere assolutamente entro le dieci del mattino per confermare la prenotazione della visita al Canyon. Il rispetto dei tempi è fondamentale, perchè i posti per i tour guidati sono limitati, ed anche un ritardo di pochi minuti potrebbe portare all'annullamento della tua prenotazione a favore di chi si è presentato lì sperando in qualche rinuncia per inserirsi.
Con tutto questo rimpallo di fusi orari, non abbiamo certezza assoluta dell'ora in vigore a Page, per cui il viaggio avviene con la leggera inquietudine di essersi sbagliati ed arrivare in ritardo.
L'inquietudine svanisce a pochi chilometri da Page quando, attraversando il confine tra Utah ed Arizona l'orologio del navigatore passa dalle 10:30 alle 9:30, spazzando via ogni residua preoccupazione.
Prima, però, è necessario cercare di fare chiarezza su una cosa importante: il fuso orario.
Passando da Los Angeles ad Hatch abbiamo perso un'ora di fuso. La California è infatti nove ore indietro rispetto all'Italia (Pacific Time o PT), mentre lo Utah è ad otto ore (Mountain Time o MT). Dovrebbe esserlo anche l'Arizona, che adotta il Mountain Time, ma l'Arizona ha la particolarità di non adottare l'ora legale, il che significa che per tutto il periodo dell'ora legale Arizona e California hanno la stessa ora, mentre quando l'ora legale non è in vigore sono Arizona e Utah ad avere la stessa ora. Beh, che problema c'è? Nessuno. Senonchè una buona parte del territorio dell'Arizona si trova nella cosiddetta Navajo Nation (Naabeehó Bináhásdzo), una sorta di stato nello stato che copre un vasto territorio tra Utah, Arizona e New Mexico ed è forse la più grande riserva indiana d'America.
Bene, la Navajo Nation adotta l'ora legale, per cui ci troviamo nella singolare situazione che in Arizona, a seconda di dove ti trovi, può essere un'ora oppure un'altra.
Ma non è finita qui. A complicare ulteriormente le cose ci si mette Page che, pur essendo in territorio Navajo, ha deciso di non adottare l'ora legale. Quindi per sapere che ora è quando si è in Arizona bisogna capire se l'ora legale è in vigore o meno e, in caso positivo, se ci si trova o meno in territorio Navajo e, in caso positivo, se ci si trova a page e dintorni. Semplice, no?
E' per questo che partiamo da Hatch con largo anticipo per percorrere le due ore di strada che ci separano dall'Antelope Canyon, dove dobbiamo essere assolutamente entro le dieci del mattino per confermare la prenotazione della visita al Canyon. Il rispetto dei tempi è fondamentale, perchè i posti per i tour guidati sono limitati, ed anche un ritardo di pochi minuti potrebbe portare all'annullamento della tua prenotazione a favore di chi si è presentato lì sperando in qualche rinuncia per inserirsi.
Con tutto questo rimpallo di fusi orari, non abbiamo certezza assoluta dell'ora in vigore a Page, per cui il viaggio avviene con la leggera inquietudine di essersi sbagliati ed arrivare in ritardo.
L'inquietudine svanisce a pochi chilometri da Page quando, attraversando il confine tra Utah ed Arizona l'orologio del navigatore passa dalle 10:30 alle 9:30, spazzando via ogni residua preoccupazione.
mercoledì 22 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/3 - Bryce e Zion
Con l'immensità del Grand Canyon ancora negli occhi, lasciamo Flagstaff per dirigerci alla prossima tappa: Hatch. Hatch, che non è la botola di Lost ma poco ci manca, è uno sperduto agglomerato di 4 case (quattro di numero, non così per dire. Vabbè... facciamo otto...) nello Utah, che ha il vantaggio di essere a 20 minuti dal Bryce Canyon ed a quaranta dall'entrata Est dello Zion National Park, le nostre prossime due mete.
La strada costeggia il Grand Canyon da lontano. Il Canyon non è immediatamente visibile, ma qua e là si intravede il bordo opposto all'orizzonte e, ancora una volta, ci si rende conto di quanto immenso sia.
Durante il percorso, approfittando del passaggio da Page (che sarà la nostra tappa successiva), ci fermiamo poco fuori dell'abitato della cittadina dell'Arizona per fare una capatina al Deadhorse Point. Avremmo dovuto visitarlo tra un paio di giorno, ma già che ci siamo. Poi manca poco a pranzo, è un sentiero con passeggiata da cinque minuti. Che vuoi che sia.
Arriviamo al parcheggio, piuttosto affollato, e vediamo subito i cartelli che consigliano di affrontare la camminata attrezzati di cappellino o copricapo per il sole ed una adeguata scorta di acqua. Ma come? Anche per una passeggiata di cinque minuti ci vuole il bidone d'acqua da 5 litri? Dopo cinque minuti di cammino, quando è chiaro che ce ne vorranno altri 15, come minimo, tra salite e discese, mi appunto mentalmente di recuperare il sito dove avevo letto dei "cinque minuti a piedi", ripromettendomi di mandarli a fare ripetutamente i cinque minuti di camminata avanti e indietro, senza acqua e sotto il sole a 40 gradi. Un po' d'acqua l'avevamo comunque, ma impariamo che è meglio seguire le indicazioni dei cartelli, che non sono certamente state messe a rampazzo. Ci tornerà utile in seguito.
La strada costeggia il Grand Canyon da lontano. Il Canyon non è immediatamente visibile, ma qua e là si intravede il bordo opposto all'orizzonte e, ancora una volta, ci si rende conto di quanto immenso sia.
Durante il percorso, approfittando del passaggio da Page (che sarà la nostra tappa successiva), ci fermiamo poco fuori dell'abitato della cittadina dell'Arizona per fare una capatina al Deadhorse Point. Avremmo dovuto visitarlo tra un paio di giorno, ma già che ci siamo. Poi manca poco a pranzo, è un sentiero con passeggiata da cinque minuti. Che vuoi che sia.
Arriviamo al parcheggio, piuttosto affollato, e vediamo subito i cartelli che consigliano di affrontare la camminata attrezzati di cappellino o copricapo per il sole ed una adeguata scorta di acqua. Ma come? Anche per una passeggiata di cinque minuti ci vuole il bidone d'acqua da 5 litri? Dopo cinque minuti di cammino, quando è chiaro che ce ne vorranno altri 15, come minimo, tra salite e discese, mi appunto mentalmente di recuperare il sito dove avevo letto dei "cinque minuti a piedi", ripromettendomi di mandarli a fare ripetutamente i cinque minuti di camminata avanti e indietro, senza acqua e sotto il sole a 40 gradi. Un po' d'acqua l'avevamo comunque, ma impariamo che è meglio seguire le indicazioni dei cartelli, che non sono certamente state messe a rampazzo. Ci tornerà utile in seguito.
martedì 21 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/2 - Grand Canyon
E' ora di lasciare la metropoli, le sue code infinite ed il traffico infernale per iniziare la VERA vacanza, cioè un lungo giro per i parchi nazionali del sudovest americano. Arizona, Utah, Colorado e New Mexico ci aspettano con le loro strade lunghe e diritte, le loro distanze giganti tra un centro abitato e l'altro e, soprattutto, le loro meraviglie naturali distribuite su quel parco giochi personale dei geologi chiamato Colorado Plateau.
Per arrivare alla prima tappa del nostro itinerario spezziamo il viaggio da Los Angeles a Flagstaff in due, fermandoci a dormire circa a metà strada nell'ultimo paesino della California prima di entrare in Arizona. Si tratta di Needles, un piccolo agglomerato di case nel mezzo del deserto del Mojave dove ci accoglie la simpatica temperature di 118 gradi fahrenheit (sono 48 gradi centigradi: QUA-RAN-TOT-TO!!!). "Si ma non c'è umidità", dice quello, "ed il caldo è più sopportabile". Sarà anche così, ma uscire dalla camera d'albergo per andare a mangiare al ristorante dall'altra parte della strada significa entrare in un forno acceso ed essere investiti dal vento caldo generato da un gigantesco phon. Sarà anche secco, ma il caldo è caldo.
Needles si trova proprio sulla vecchia Route 66, ed è una delle poche cittadine a non essere stata tagliata fuori dalla I-40 che, in questa zona, ne ricalca quasi completamente il tracciato, e tutto è proprio come nei vecchi film. Motel dai nomi esotici, insegne dai colori sgargianti (magari un po' sbiaditi, oggi) e sapore di "antico" ovunque. Nel nostro avvicinamento a Flagstaff, il giorno successivo, facciamo una sosta per pranzare a Williams, altra città storica della Route 66 che mantiene inalterato il suo stile anni '50. A volte sembra di trovarsi catapultati dentro il cartone animato "Cars".
Per arrivare alla prima tappa del nostro itinerario spezziamo il viaggio da Los Angeles a Flagstaff in due, fermandoci a dormire circa a metà strada nell'ultimo paesino della California prima di entrare in Arizona. Si tratta di Needles, un piccolo agglomerato di case nel mezzo del deserto del Mojave dove ci accoglie la simpatica temperature di 118 gradi fahrenheit (sono 48 gradi centigradi: QUA-RAN-TOT-TO!!!). "Si ma non c'è umidità", dice quello, "ed il caldo è più sopportabile". Sarà anche così, ma uscire dalla camera d'albergo per andare a mangiare al ristorante dall'altra parte della strada significa entrare in un forno acceso ed essere investiti dal vento caldo generato da un gigantesco phon. Sarà anche secco, ma il caldo è caldo.
Needles si trova proprio sulla vecchia Route 66, ed è una delle poche cittadine a non essere stata tagliata fuori dalla I-40 che, in questa zona, ne ricalca quasi completamente il tracciato, e tutto è proprio come nei vecchi film. Motel dai nomi esotici, insegne dai colori sgargianti (magari un po' sbiaditi, oggi) e sapore di "antico" ovunque. Nel nostro avvicinamento a Flagstaff, il giorno successivo, facciamo una sosta per pranzare a Williams, altra città storica della Route 66 che mantiene inalterato il suo stile anni '50. A volte sembra di trovarsi catapultati dentro il cartone animato "Cars".
lunedì 20 agosto 2018
USA 2018: Diario di viaggio/1 - Los Angeles
Un anno di attesa, di organizzazione, di pianificazione, e finalmente arriva il giorno della partenza di un viaggio la cui genesi risale alle vacanze dello scorso anno, ad ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato il bisogno, di quanto poco entusiasmo avessero generato i dieci giorni a Mentone.
Prima tappa dell'avventura è Los Angeles, una città che, in realtà, non mi ha mai attirato più di tanto, e che in questa prima a rapida visita non ha fatto nulla per farmi cambiare idea.
La prima impressione della città è l'estremo caos che regna praticamente dappertutto. Un caos ordinato, molto americano, ma sempre caos è. La seconda impressione è che senza un'automobile sei praticamente spacciato. La vastità dell'agglomerato urbano è tale da scoraggiare chiunque ad usare dei mezzi pubblici che, per quanto possano essere efficienti, devono comunque coprire distanze notevoli, perdendo tutto il vantaggio rispetto al mezzo privato. Dall'altro lato, bisogna rassegnarsi a spendere una cifra in parcheggi, anche se l'opzione centro commerciale con tariffa agevolata è spesso disponibile. La terza impressione è che Los Angeles è una coda continua. Inizi a stare in coda quando scendi dall'aereo per l'immigrazione, continui per il ritiro dell'auto a noleggio e poi ti immetti nella coda perenne che contraddistingue le grandi arterie di scorrimento della città. L'impressione è che a Los Angeles la coda sia oramai uno stile di vita accettato e dal quale non ci si possa sottrarre in alcun modo.
Avendo un giorno già impegnato con il training camp dei Rams, il tempo per il turismo non è stato sicuramente adeguato alla quantità di roba da vedere. Persa la visita all'osservatorio Griffith per troppo affollamento nel piccolo parcheggio a disposizione, ci siamo limitati ad un paio di classici come la Walk of Fame e Rodeo Drive, con puntatina a Santa Monica per la sera.
Impressioni? Bah... turisti, turisti e ancora turisti. Una quantità inenarrabile di italiani, ed alla fine niente di entusiasmante.
Prima tappa dell'avventura è Los Angeles, una città che, in realtà, non mi ha mai attirato più di tanto, e che in questa prima a rapida visita non ha fatto nulla per farmi cambiare idea.
La prima impressione della città è l'estremo caos che regna praticamente dappertutto. Un caos ordinato, molto americano, ma sempre caos è. La seconda impressione è che senza un'automobile sei praticamente spacciato. La vastità dell'agglomerato urbano è tale da scoraggiare chiunque ad usare dei mezzi pubblici che, per quanto possano essere efficienti, devono comunque coprire distanze notevoli, perdendo tutto il vantaggio rispetto al mezzo privato. Dall'altro lato, bisogna rassegnarsi a spendere una cifra in parcheggi, anche se l'opzione centro commerciale con tariffa agevolata è spesso disponibile. La terza impressione è che Los Angeles è una coda continua. Inizi a stare in coda quando scendi dall'aereo per l'immigrazione, continui per il ritiro dell'auto a noleggio e poi ti immetti nella coda perenne che contraddistingue le grandi arterie di scorrimento della città. L'impressione è che a Los Angeles la coda sia oramai uno stile di vita accettato e dal quale non ci si possa sottrarre in alcun modo.
Avendo un giorno già impegnato con il training camp dei Rams, il tempo per il turismo non è stato sicuramente adeguato alla quantità di roba da vedere. Persa la visita all'osservatorio Griffith per troppo affollamento nel piccolo parcheggio a disposizione, ci siamo limitati ad un paio di classici come la Walk of Fame e Rodeo Drive, con puntatina a Santa Monica per la sera.
Impressioni? Bah... turisti, turisti e ancora turisti. Una quantità inenarrabile di italiani, ed alla fine niente di entusiasmante.
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