Volevo scrivere queste righe già dopo l’impresa di Bilbao,
ma ho atteso fino al termine di questa fantastica cavalcata europea, perché avevo
la netta sensazione che non sarebbe finita molto presto. Mi sbagliavo, ma di
poco. Il Toro che ho visto ieri sera poteva tranquillamente qualificarsi con un
pizzico di fortuna in più ed un pizzico di malizia ed esperienza in Russia, la
stessa che hanno mostrato i russi ieri sera, financo fastidiosi con i loro
mille espedienti per perdere tempo.
Chi mi conosce avrebbe dovuto già accorgersi di un grande
cambiamento. Ho scritto Toro, con la T maiuscola, e non Cairese, come spesso ho
chiamato la squadra che indossava la maglia granata ogni domenica in questi
dieci anni di presidenza di bracciamozze a.k.a. Urbano Cairo.
Ho scritto Toro perché ho finalmente rivisto la squadra di
cui sono innamorato follemente da sempre. Una squadra che lotta, che butta il
cuore oltre l’ostacolo, che porta a casa imprese epiche come quella di Bilbao
senza sapere nemmeno bene come ci è riuscita, che sopperisce alle (molte) carenze
tecniche con la grinta ed il cuore. Il tutto nonostante una società assente, un
presidente che li considera solo una possibile plusvalenza ed un allenatore
che, pur con qualche merito, non perde occasione per dichiarare come il tale o
il talaltro sia pronto per una grande squadra, un palcoscenico più importante,
il “calcio che conta”.
Sul presidente non ho parole da spendere, solo parolacce.
Sull’allenatore, invece, qualche parola la spendo volentieri. Non è un mistero
che non mi piaccia per niente. Non mi piace il suo non gioco fatto di verticalizzazioni
all’indietro e di giro palla insulso a scimmiottare il tiki-taka del Barcellona
(non è un caso che a Bilbao e ieri sera con lo Zenit si sia visto il Toro più
lontano che si possa immaginare da quello che Ventura ci ha abituati a vedere
in questi anni), non mi piace il suo ricordare costantemente che veniamo dalla
serie B e da Cittadella, come se 100 anni di storia non fossero mai esistiti, e
non mi piace la sua mania di prendersi i meriti delle vittorie ma mai i
demeriti delle sconfitte, che sono sempre colpa dell’ambiente, dei tifosi, dell’errore
di Benassi, dell’errore di Jansson. E’ però riuscito a plasmare un buon gruppo,
e soprattutto a domare giocatori che ovunque siano stati (prima e dopo) hanno
fallito (Cerci, anyone?). I risultati sono dalla sua, e su questo ci sono pochi
dubbi. Però io ero orgoglioso di essere del Toro anche quando perdevamo a
Castel di Sangro (un episodio a caso nei cent’anni di storia mai esistiti
secondo Ventura) o quando pareggiavamo a Cittadella, perché i giocatori, gli
allenatori ed i presidenti vengono e vanno, ma noi siamo sempre qua “a guardia
di una fede”. Quello di cui non sono orgoglioso, da dieci anni a questa parte,
è di avere un presidente che avrebbe la possibilità di fare grandi cose, ma
preferisce vivacchiare alla giornata, sperando di azzeccare l’annata,
nascondendosi dietro al paravento del bilancio sano e dei conti a posto (per
forza… se non spendi mai è impossibile fare debiti).
L’avventura europea è finita, e chissà quando ci capiterà di
nuovo di viverla. Tanti dei “cuori granata” che ieri sera riempivano il
Comunale, se ne torneranno nell’ombra, pronti a saltar fuori all’occorrenza
alla prossima vittoria, ma del resto la gobbizzazione di gran parte della
nostra tifoseria è un processo evolutivo inarrestabile, soprattutto con
personaggi come i due summenzionati in giro.
Io continuerò a portare sempre con orgoglio qualcosa del
Toro indosso, come accade oramai da almeno quarant’anni a questa parte,
sperando di non dover rivedere in campo la Cairese da qui a fine campionato.
Grazie ragazzi, grazie Capitan Glik. Ci avete fatto sognare.